Il paese dei mulini a vento da Isabella Gavazzi

 

Un grazie a Isabella per condividere con noi la sua testimonianza di un campo con SCI Italia.

 

 

A Son Servera, a tarda sera, l’unico rumore era quello degli addobbi per la festa patronale. In ogni via, stretta, con case dai colori della terra e dalla storia centenaria, erano appesi festoni di carta bianca; al minimo vento il fruscio della velina mossa accompagnava il tragitto. È un paese dalla terra rossa e dal mare blu, incastonato tra acqua e collina. Come vedette, nella parte alta del paese, due o tre mulini a vento dal tetto a punta controllano gli abitanti. Sotto le loro pale, ormai in disuso, la sensazione era quella di avere quella piccola fetta di mondo ai piedi: le vie in pendenza si districavano in curve, discese e piazzette. Case vecchie, case basse, case abbandonate e ristrutturate; gialle, ocra, rosse, bianco sporco, e poi alberi di limone, glicini, aranceti, galline e polli. Tutto questo con un vento salino costante, che ti si infilava nei capelli, facendoti sentire vivo.

 

 

Abbiamo passato l’ultimo pomeriggio di campo sotto un mulino a vento, dopo aver terminato il lavoro. Ci siamo seduti su una vecchia macina in pietra e osservato, in silenzio, il panorama. Eravamo partiti come un gruppo di nove estranei provenienti da mezza Europa, ognuno con la propria lingua e il suo bagaglio culturale e con una sua personale motivazione a intraprendere questa esperienza. Nove vite diverse che si sono incontrate per caso in un paesino nella zona meno turistica di Mallorca, un’isola conosciuta solo per quello. Abbiamo parlato del futuro, di quello che avremo fatto e di ciò che avevamo appena concluso.

Il lavoro giornaliero era stancante, questo è vero, ma si trattava di una sensazione positiva. Dalle sette di mattina alle dodici sotto il sole a pulire rovine del neolitico con guanti, potatrici e rastrelli. Nessun rumore dell’uomo, solo noi che tagliavamo fasci d’erba e cantavamo canzoni. Tutti di paesi lontani, con diverse lingue eppure in armonia. Due settimane iniziate da estranei e finite da amici, solo forse con qualche callo sulle mani e la pelle abbronzata. Sorrisi prima sconosciuti e poi familiari, ritmi e abitudini che si assomigliavano giorno dopo giorno.

Dopo la mattina nel sito archeologico si tornava a casa, dove passavamo altre due ore a pulire reperti archeologici con acqua e spazzolini. Un momento sereno, per riprendersi dal sole della mattina. Ridere, scherzare, pianificare cosa avremmo fatto nel pomeriggio. Il resto della giornata era libero e noi lo passavamo insieme ad esplorare il paese e l’entroterra con mezzi di fortuna, oppure a chiacchierare di storia con la guida del paese, che ci ha fatto sentire a casa in un posto in cui nessuno parlava inglese.

 

Eravamo in una bolla tutta nostra, dove non importava cosa avessimo fatto prima o quello che saremo tornati a fare dopo, contava l’oggi, ora dopo ora, vissuta senza pretese. L’importante era godersi il presente, e così è stato.

Due settimane di poche ore di sonno e parecchi graffi su bracci a e gambe, oltre che di una simpatica puntura di vespa su una mano.

Due settimane di qualche piccola incomprensione, come i turni per la doccia o i ritardatari a colazione, tutto risolto in frasi con un inglese maccheronico e risate.

Due settimane di esperienze nuove, di creazione di legami, di nascita di nuove amicizie.

Due settimane finite al terminal dell’aeroporto di Palma, abbracciati, a riprometterci che quello sarebbe stato solo un arrivederci.