È ora di cena nella casa dei volontari. Io e Koko abbiamo il turno delle pulizie e preparazione della tavola così cominciamo a recuperare le posate pulite e mettiamo sul tavolo i bicchieri e i sacchetti con l’acqua potabile. Prudence e Sveva cucinano questa sera e dalla pentola che bolle sul fuoco proviene un profumino invitante, è dalle cinque di pomeriggio che tagliano verdure e trafficano nell’angolo cottura. Non ho mai avuto una grande passione per le verdure ma il loro modo di cucinarle me le fa sembrare il piatto più buono del mondo.
Intanto Julien, Donald e Jean Marie si posizionano in veranda sulle panche con due djembe tra le ginocchia. La prima giornata di lavoro nel centro di ASTOVOT è andato, ai bambini abbiamo introdotto il corso di informatica e abbiamo raccontato cosa faremo insieme durante le tre settimane del progetto, sembrano contenti, non vedono l’ora di utilizzare i computer.
Il sole lentamente scende all’orizzonte, e sparisce dietro le colline. L’ombra del termitaio di quattro metri nel prato di fonte si allunga sempre di più e arriva fino alla porta del nostro cortile. Qualche nuvola offusca il bel tramonto ma l’aria calda non cessa di accarezzare la pelle.
Ta-taratta-ta. Ta-taratta-ta. Le mani sottili di Julien toccano i bordi del djembe e ne esce un suono secco e preciso. Bum-burum-bum-bum. Bum-burum-bum-bum. Donald segue colpendo il suo strumento più forte, nel centro e un suono profondo e vibrante si aggiunge nell’aria. Tin-trintin-tin. Tin-tintin-tin. Jean Marie prende due posate dal tavolo e si aggiunge all’armonia improvvisata. Jakub e Valerié si siedono anche loro sulle panche ed io e Koko li raggiungiamo.
Qualcuno inizia a battere i piedi a ritmo, io batto le mani. La musica sale e l’aria si scalda. Ta-taratta-ta. Bum-burum-bum-bum. Tin-tirintin-tin. Koko si alza in piedi e inizia a ballare battendo i piedi. Prudence di fianco alla pentola sul fuoco comincia a muovere il bacino e Sveva canta con la sua bella voce alcune note. Tutti si alzano in piedi tranne i suonatori che continuano imperterriti a colpire gli strumenti. L’aria si fa sempre più calda e si comincia a sudare. Ta-taratta-ta. Bum-burum-bum-bum. Tin-tirintin-tin. Ci mettiamo in cerchio nella veranda ormai buia, qualcuno accende la luce. La musica aumenta d’intensità, si espande nell’aria e vola libera al di là del prato verso le case circostanti. Si balla. Si canta. Emettiamo suoni in una lingua sconosciuta che si interseca perfettamente con il ritmo dettato dagli djembe. Sale, sale. La musica fa vibrare la terra e questa vibrazione sale su fino all’anima e la scalda, ti fa muovere liberamente, in un modo che non avrei mai immaginato. Mi piace cantare, non mi dispiace la musica ma il senso del ritmo proprio mi manca. Qui, invece, mi dimentico di quello che so e non so fare, non mi trattengo più e mi lascio andare. Seguo il flusso, il ritmo, quel suono ancestrale che qualche pezzo di legno e di metallo sono in grado di creare e improvvisamente, mi sento a casa. Mi sento al posto giusto, capisco di aver fatto la scelta giusta intraprendendo questo viaggio verso il Togo. Un luogo così diverso e distante improvvisamente lo sento famigliare. La paura di non essere compresa, le ansie del viaggio, i pensieri sul chi sono, cosa voglio essere, tutte le indecisioni della vita si dileguano e lasciano spazio solo a quest’armonia universale, senza confini, che riempie il cuore e arriva fino alle stelle.
Aaah l’Africa. Chi l’avrebbe mai pensato che un posto così lontano, differente in ogni aspetto, a tratti difficile e faticoso avesse la capacità di farti sentire come a casa. Ecco che in tutto quel casino, una sinapsi avviene nel mio cervello e mi metto a guardare i miei compagni negli occhi uno ad uno e capisco cosa significa davvero per me la parola casa. Un luogo fatto di persone con le quali poter essere totalmente me stessa. Sento di voler bene a tutti loro anche se li conosco appena, ma la musica mi rende ebbra di gioia se mi lascio andare. La paura che mi ha assalito la prima sera, dopo l’atterraggio, quando mi sono resa conto di essere sola, dall’altra parte del mondo, in un posto sconosciuto con persone che non spiccicavano una parola d’italiano e molto diverse da me, si affievolisce. Scopro che esiste un linguaggio universale con il quale ci si può comprendere e la musica in questo aiuta sicuramente. Fermo questo pensiero e lo congelo nella mente così da ricordarmi di scriverlo sul mio diario di bordo.
Ta-taratta-ta. Bum-burum-bum-bum. Tin-tirintin-tin. Piano piano l’intensità della musica diminuisce. Le mani di Julien sono rosse e stanche, Donald colpisce l’ultima volta il centro del suo djembe e tutti sudati e affamati ci giriamo verso Prudence che ci guarda divertita, il sorriso stampato sul viso e con le mani sui fianchi grida “Á TAAAAAABLE!”. Il richiamo della nostra chef du chantier ci fa drizzare in piedi e ridendo ci sistemiamo a tavola pronti a mangiare. Guardo i miei nuovi amici ancora una volta e in quel momento provo una sensazione intensa, profonda, travolgente, straripante, traboccante, senza confini. Sono felice.