Nella “ghiacciaia d’Europa”: cronache dal confine serbo-ungherese

Le immagini scioccanti della condizione dei rifugiati in Serbia stanno iniziando a fare il giro del mondo. Le temperature di questo inverno gelido sono calate a picco verso i -20 gradi, e mentre i Balcani si trasformano nella “ghiacciaia d’Europa” migliaia di migranti e richiedenti asilo sono costretti a vivere all’aperto, in edifici abbandonati, in tende di fortuna, senza acqua, cibo, assistenza, forniture igienico-sanitarie, in attesa da mesi che l’Europa apra le sue porte.

Sono circa 8000 i rifugiati in territorio serbo, di cui solo 6000 ospitati in campi e strutture ufficiali (ma non sempre adeguate e attrezzate per l’inverno), e circa 2000 sono i disperati che affollano le strade di Belgrado. Medici Senza Frontiere denuncia le terribili condizioni in cui sono costretti a vivere, abbandonati a se stessi e alle temperature polari delle ultime settimane. Casi di ipotermia, di congelamento degli arti, di intossicazione per inalazione di fumi tossici (per resistere al freddo viene bruciato di tutto) sono sempre più frequenti; per non parlare di malattie minori generate dalle condizioni igieniche nulle, come la scabbia, diffusissima. L’UNHCR, nonostante fosse stata avvertita per tempo e avesse assicurato la presenza di sufficienti strutture a norma, è stata in grado di fornire unicamente qualche tenda, telone e coperte – oggi sepolte dalla neve. Il governo serbo, da parte sua, fa quel che può con fondi che non sono sufficienti: quelli promessi tempo addietro dall’Europa sono arrivati dimezzati e mai rinnovati.

I campi attualmente presenti sono pieni e in alcuni casi sovraffollati, e da tempo non accettano più nessuno. Un nuovo campo è stato aperto negli ultimi giorni nei pressi di Belgrado, dove ricollocare le 2000 anime che affollano le strade della capitale. Ma la sua capacità è di 600 persone, nient’affatto sufficiente. Come se non bastasse, circa due mesi fa il governo serbo ha pubblicato una lettera aperta rivolta a tutte le organizzazioni e ong attive in campo umanitario, proibendo loro di servire cibo ai migranti non registrati nei campi. Da allora, le organizzazioni locali non svolgono più una regolare attività di assistenza, le uniche ong rimaste attive sono internazionali o provenienti da altri paesi. Senza queste organizzazioni internazionali, i rifugiati non riceverebbero assistenza alcuna, né cibo, né acqua, né assistenza medica. Organizzare qualsiasi genere di attività umanitaria è di giorno in giorno più complicato: il governo non vuole che i rifugiati dimorino in campi di fortuna e quindi chiude i centri per attività diurne che supportano i migranti non registrati; in questo modo si tenta di scoraggiare la scelta di restare fuori dal sistema ufficiale, costringendo i rifugiati a registrarsi regolarmente avviando la procedura di richiesta di asilo (nonostante non siano disponibili posti a sufficienza per tutti/e!).

Questo comporta una notevole difficoltà anche per chi svolge un lavoro umanitario. Nei mesi scorsi esperienze locali come Infopark (chiosco allestito all’interno del parco antistante la stazione centrale di Belgrado, gestito da volontari che ogni giorno davano informazioni logistiche e legali ai rifugiati) o Miksalište (centro diurno dove ai rifugiati venivano offerti due pasti al giorno e delle attività ricreative) sono state chiuse o ridotte di attività. La polizia effettua regolari ronde di controllo nelle zone dove sono accampati i migranti, e i volontari che vengono colti nel distribuire cibo, o vestiti, o coperte, vengono portati in commissariato per effettuare dei controlli. La logica di questa morsa restrittiva è in linea con le criminalizzazioni di attivisti e volontari di mezza Europa, a rischio di condanne molto gravi per aver dato un passaggio in macchina o ospitato in casa o semplicemente aiutato i rifugiati.

Essere una/un volontaria/o oggi significa muoversi in bilico tra l’aiuto umanitario e l’illegalità. Come esempio concreto posso riportare l’attività dei volontari di Fresh Response e North Star nella zona di Subotica e Kelebija. Qui, al ridosso del confine ungherese, un numero oscillante tra i 200 e i 300 rifugiati preme sulla frontiera, ogni notte, tentando, a piccoli gruppi, di attraversarla. La condizione di questi rifugiati è estremamente critica: esclusi dal sistema di accoglienza, vivono in alloggi di fortuna come una fabbrica di mattoni abbandonata, i vagoni in disuso nel deposito ferroviario, o nella cosiddetta “jungle”, in tende da campeggio. Le temperature non salgono più sopra lo zero da settimane, non ci sono servizi igienici attrezzati, né acqua. Se qui non fosse attivo questo gruppo di volontari internazionali, indipendente, ai rifugiati mancherebbe ogni genere di assistenza, anche primaria. Tramite donazioni private e il supporto di organizzazioni locali (quali Eastern European Outreach e Volonterski Centar Vojvodine) e internazionali (prima tra tutte Medici Senza Frontiere), FR e NS riescono a distribuire ogni giorno circa 200 “food bags”, con all’interno frutta, verdura, pane, riso, olio, acqua, latte, zucchero. Il lavoro è incessante perché l’obiettivo è tutelare la sopravvivenza di ogni gruppo di rifugiati; vengono quindi distribuite pentole per cucinare, legna per i fuochi. Tende, sacchi a pelo, coperte, teli isolanti. Per ogni rifugiato vengono garantiti capi di vestiario secondo necessità: scarpe invernali, giacche, maglioni, magliette, intimo. Guanti, calze, sciarpe e cappelli vengono distribuiti senza limite. Tutto questo è possibile grazie all’aiuto di donatori che da tutto il mondo supportano l’attività di questo incredibile e infaticabile gruppo di volontari.

La situazione è ancor più drammatica se si pensa che in questa zona manca un presidio medico deputato ad assistere i rifugiati; accade quindi spesso che i volontari si ritrovano a dover affrontare situazioni che solo un medico dovrebbe trattare. Oltre ai problemi causati dall’esposizione al freddo intenso (nello specifico, i casi di congelamento delle estremità degli arti, che se non curati in tempo possono causare il decesso del tessuto, e portare quindi all’amputazione), i casi più gravi sono conseguenza della violenza della polizia ungherese sui corpi di chi ha tentato di attraversare la frontiera durante la notte. Decine di uomini tornano indietro brutalmente pestati, feriti. Contusioni, nasi rotti, dita spezzate, dolori intercostali, difficoltà respiratorie. In questi casi, i volontari non possono che accompagnare i feriti al pronto soccorso locale, dove fino ad oggi i rifugiati sono stati accettati e presi in cura. Ma la situazione potrebbe presto cambiare, poiché una direttiva del Ministero della Salute proibisce agli ospedali di trattare i rifugiati come pazienti normali: è vietato per loro attendere nella stessa sala di attesa degli altri pazienti. Devono essere collocati in un edificio separato ed essere presi in cura per ultimi, quando la lista di attesa è terminata.

Questo rende il lavoro umanitario sempre più arduo, insieme alle retate sempre più frequenti della polizia. Tali retate sono dirette principalmente contro i rifugiati: con la scusa del freddo intenso, all’incirca una volta al mese vengono deportate a sud, nel campo chiuso di Presevo, quante più persone possibile. Molte di loro vengono direttamente portate oltre il confine macedone, per respingerle sempre più lontano dai confini europei. Per quanto riguarda il rapporto tra la polizia e i volontari, si basa su un confine labile di tolleranza: finché l’attività di assistenza viene svolta in modo discreto e invisibile, viene lasciata correre; ma quando questa diventa pubblica e palese, iniziano i problemi. Ad esempio, sia FR che NS fino a qualche settimana fa avevano degli spazi ai confini della città di Subotica dove svolgere attività diurne per i rifugiati. Tali spazi, regolarmente affittati, venivano chiamati Community Center: per 6 ore al giorno, tutti i giorni, ai rifugiati era possibile sostare in un luogo chiuso, riscaldato, con wifi gratuito, docce per lavarsi, e via dicendo. Entrambi i Community Center sono stati chiusi dalla polizia, minacciando di arresto i proprietari con l’accusa di traffico di uomini. In questo modo le autorità riescono a mantenere l’attività dei volontari il più possibile nell’ombra, e le condizioni dei rifugiati sempre più critiche.

Quella che abbiamo davanti ai nostri occhi è una tragedia umanitaria di proporzioni gigantesche. La gestione che le autorità e i governi europei stanno attuando di tale crisi è nulla, benché politici e politicanti si riempiano la bocca di soluzioni per l’emergenza migratoria. Di fatto davvero presenti sul territorio sono solo organizzazioni di volontari che rimangono piccoli baluardi di umanità, di fronte allo scempio della democratica Europa che rimane a guardare.