Racconto di Cristina Tosone, volontaria nel campo di volontariato che si è svolto nell’agosto 2015 al Centro di accoglienza per richiedenti asilo Fedasil, Belgio.
La sera prima di partire per il mio primo campo di volontariato in Belgio non riesco a dormire. Non faccio altro che rigirarmi nel letto, ho una paura tremenda.
Nell’infosheet che mi hanno mandato a giugno c’è scritto che il campo potrebbe risultare particolarmente faticoso dal punto di vista psicologico, che il cibo potrebbe essere scarso a causa della mancanza di fondi del centro che ci ospiterà e che noi ragazze dobbiamo stare attente ai vestiti troppo scollati visto che ci saranno culture molto diverse dalla nostra.
Ma chi me l’ha fatto fare? Poi un campo di tre settimane, non potevo scegliere una cosa più breve come prima volta?
Nonostante la notte insonne il 3 agosto arrivo a Rixensart, un piccolo paesino a sud di Bruxelles.
Ad attendermi alla stazione c’è Mark, il responsabile dell’animazione del centro di accoglienza per richiedenti asilo Fedasil: è lì che passerò le prossime 3 settimane, durante le quali insieme agli altri volontari dovrò organizzare attività per i residenti del centro, in prevalenza donne e bambini che aspettano che gli venga riconosciuta la protezione internazionale.
Arrivata al Fedasil faccio la conoscenza degli altri volontari: altre due italiane (Giorgia e Gilda), due spagnoli (Teresa e Mané), una svizzera (Noemie) e due belghe (Pascale e Fany).
Nel corso delle tre settimane in realtà si uniranno a noi anche: Irene, un’italiana che è lì per scrivere la tesi ma che poi ci darà un grande aiuto nello svolgimento delle attività, Daisy, un’altra italiana che studia a Bruxelles e che fa volontariato al centro già da un po’ di tempo, e Suzanna, una spagnola che è a Rixensart da un anno con il Servizio Volontario Europeo.
Ci sistemiamo in una stanza con letti a castello in un piccolo edificio accanto a quello più grande che ospita i rifugiati: con loro condivideremo le docce e la mensa (tra l’altro scoprirò nei giorni seguenti che il cibo non sarà per niente scarso come ci avevano detto, e addirittura metterò su qualche chilo).
Per organizzare le attività abbiamo a disposizione un parco enorme, una stanza per il bricolage accanto alla nostra “camera” e uno stanzone nell’edificio più grande dove possiamo anche guardare dvd. C’è inoltre una piccola cucina che possiamo riservare all’occorrenza.
La prima sera Pascale, che è la nostra coordinatrice, ci fa fare dei giochi tra di noi per conoscerci meglio.
Il giorno dopo una responsabile del Servizio Civile Internazionale del Belgio viene a spiegarci le regole del centro e a discutere con noi il tema della interculturalità. Tornerà una volta a settimana per valutare come sta procedendo il campo di volontariato.
La sera organizziamo le attività per la settimana: siamo tutti pieni di idee ed è abbastanza facile, facciamo un calendario e lo appendiamo alla mensa così che tutti lo possano vedere. Lo stesso faremo per le settimane successive.
Siccome i fine settimana sono liberi, ci organizziamo anche per quelli: Louvain-la-Neuve e Bruxelles il primo, ancora Bruxelles e Gand il secondo, Oostende (Fany ci ospita nella sua casa al mare) e Bruges l’ultimo. Ci riusciamo a mettere d’accordo facilmente anche perché ognuno è lasciato libero di restare al centro o di girare da solo.
Il terzo giorno iniziamo le attività con i bambini: in realtà li abbiamo già conosciuti nei giorni precedenti perché i genitori li lasciano girare liberamente da soli per il centro, anche se sono molto piccoli.
Questa cosa ha comportato per me una specie di “shock culturale” ma ci ho messo poco a superarlo: mi hanno spiegato che in alcune culture (soprattutto africane) i bambini sono figli della comunità più che della singola famiglia, senza contare poi che ci sono famiglie che si trovano lì da anni ed è normale che lascino liberi i loro bambini come se fossero “a casa loro”.
Oltre ai più piccoli (che vanno dai pochi mesi ai 12-13 anni) e ai loro genitori ci sono molti adolescenti, spesso non accompagnati, ragazze madri (che però hanno una sezione riservata nel centro e non stanno spesso con noi) e alcuni ragazzi che hanno più o meno la nostra età (20-30 anni).
Con il passare del tempo noi volontari impareremo ad organizzare attività diverse per ogni fascia di età.
La provenienza degli ospiti è abbastanza variegata: Guinea, Togo, Angola, Congo, Afghanistan, Iraq, Siria, Armenia..
In 3 settimane facciamo di tutto: collage, tempere, pasta di sale, origami, giochi d’acqua, gioielli, marionette, giochi di carte.
E yoga, calcio, pallavolo,capoeira, nuoto, jogging al lago di Rixensart con i ragazzi più grandi e danza orientale con le donne.
A volte prenotiamo la cucina: Noemie insegna ai bambini a fare i brownies, io e Giorgia gli facciamo fare la pizza e Pascale gli fa preparare le crepes.
La sera spesso guardiamo un film (adorano Harry Potter ma purtroppo in 3 settimane non riusciremo a farglieli vedere tutti e otto), ma loro preferiscono di gran lunga quando Mané si siede nel parco e inizia a suonare la chitarra. In pochi minuti intorno a lui si crea un cerchio di gente di ogni età che lo guarda incantata.
Ci sono delle sere in cui viene anche Bao, il marito vietnamita di Pascale, che insegna agli ospiti a suonare la darbuka, uno strumento tipico dei paesi orientali: vorremmo che queste serate non finissero mai ma a volte chiamano gli abitanti delle case vicino e ci chiedono di smettere perché si è fatto troppo tardi.
In teoria siamo tenuti a stare con i residenti del centro solo 6 ore al giorno, perciò se facciamo attività sia mattina che pomeriggio potremmo essere liberi la sera.
Il punto è che noi non stiamo con i residenti perché dobbiamo, ma perché vogliamo. Perché non ce lo aspettavamo ma con loro, che abbiano 1 o 50 anni, ci stiamo davvero bene.
E allora la mattina siamo noi che andiamo a svegliare i bambini per farli giocare, a mensa li facciamo sedere vicino a noi, la sera restiamo con loro finché la mamma non gli urla dalla finestra che è tardi e devono andare a dormire.
Quando i piccoli sono andati a dormire e decidiamo di andare a bere qualcosa in paese siamo noi ad invitare i residenti più grandi a fare una passeggiata.
A volte facciamo le serate interculturali, in cui prenotiamo la cucina e ognuno prepara una cosa tipica del suo paese di origine. In teoria sarebbero solo per noi volontari, ma i bambini ci trovano subito e di certo non li mandiamo via: e così ho visto una guineana mangiare la fonduta svizzera, una piccola siriana divorare un piatto vietnamita di verdure e un giovane togolese provare la carbonara per la prima volta.
È vero che ci sono dei momenti in cui non ne possiamo più di spiegare mille volte le regole dello stesso gioco perché non ci stanno a sentire, o di separare due ragazzini che si picchiano, o di correre dietro ai più piccoli che potrebbero farsi male. Allora magari la sera non organizziamo nulla e facciamo una passeggiata tra di noi, oppure dopo pranzo decidiamo di aspettare prima di fare le attività e stiamo un po’ in camera, ma ci riprendiamo subito.
La terza settimana c’è un’emergenza, arrivano circa settanta rifugiati, soprattutto uomini e prevalentemente dal medio oriente. Non sanno dove metterli quindi sono costretti a montare delle tende nel parco, si stabiliscono dei turni per le docce e per la mensa per evitare problemi.
I responsabili del centro ci chiedono se possiamo aiutarli con i vestiti, ricevono molte donazioni ma non hanno nessuno che li sistemi e adesso servono ai nuovi arrivati.
E così ci ritroviamo ad aiutare questi ragazzi un po’ spaesati a trovare un pantalone della loro taglia. Parlano solo arabo mentre noi volontari parliamo solo inglese o francese, eppure mentre stiamo lì tra montagne di vestiti ci capiamo, scherziamo e ridiamo.
Questa è la cosa che mi ha colpito più di tutto in questo campo: la facilità con cui abbiamo creato un legame con i residenti, pure con quelli che non parlano la nostra lingua.
E così quando l’ultimo giorno vado a salutare i ragazzi afghani, un gruppo di adolescenti senza genitori con cui ho sempre comunicato quasi solo a gesti, mi fanno segno che piangeranno perché ce ne andiamo.
Allora piango anche io e penso che mi mancheranno, e mi domando come è possibile che mi mancheranno persone con cui non ho neanche mai avuto una conversazione “a parole”.
Il 23 agosto ritorno alla vita vera, e non è tanto facile: negli occhi ho sempre il sorriso di un bambino angolano davanti alla teglia di pizza su cui gli abbiamo fatto mettere la mozzarella, e nelle orecchie ho ancora il racconto dell’incredibile viaggio di un congolese dall’Africa in Europa.
In più i ragazzi più grandi mi scrivono su facebook: Ci mancate! Quando tornate? Siamo tristi senza di voi.
Giorgia a Settembre si trasferisce a Bruxelles per studiare e dopo qualche settimana torna a Rixensart.
Io non vedevo l’ora e la riempio di messaggi: Come stanno tutti? Hanno iniziato la scuola? Stanno imparando il francese? Mandami qualche foto!
Ieri Gilda mi scrive: potremmo organizzarci per andare a trovare Giorgia un fine settimana.
Ma non perché vogliamo tornare al centro, sia chiaro!!
Vogliamo solo visitare Bruxelles per la terza volta 😉