di Federico Esposito
(si riporta fedelmente lo scritto dell’autore)
Scrivo per denunciare ciò che mi è accaduto lo scorso due e tre agosto all’aeroporto internazionale Tel Aviv Ben Gurion, procedo con ordine.
Sono uno studente di antropologia, religioni e civiltà orientali, che da un po’ di anni a questa parte studia e segue la questione arabo-israeliana, pur non essendo mai stato sul campo nutro una sincera simpatia per la lotta di resistenza del popolo palestinese e la possibilità che offriva Il Servizio civile internazionale (SCI), in partenariato col PSCC (Popular struggle coordination committee), di partecipare ad un workcamp in West bank mi pareva un’ottima occasione di crescita individuale e pratica di cittadinanza attiva.
Il campo di lavoro che si è tenuto ad al Ma’Sara, un piccolo villaggio a circa 10 km a sud di Betlemme, dal 3 al 17 agosto era “l’obiettivo” del viaggio, ma mi sarei volentieri trattenuto fino al 22 in Israele, per visitare ed apprezzarne le bellezze.
Atterrato alle 11:20 PM a Tel Aviv, dopo che partito da Roma FMC avevo fatto uno scalo di tre ore all’aeroporto di Kiev, sono iniziati i meticolosi controlli del passaporto accompagnati da mirate domande legate alle motivazioni, e alle intenzioni, del mio viaggio. Al controllo iniziale sono seguiti altri quattro interrogatori (scanditi da domande abbastanza ripetitive ), condotti con persone/soldati – con gradi – diversi, intervallati da stressanti attese frustrate dall ‘impossibilità di contattare i miei cari, avendo loro sequestratomi: telefono cellulare, macchina fotografica, passaporto e prenotazione dell ‘ostello.
Credo di aver commesso alcuni “errori” che chi si relaziona con dei soldati addestrati e formati a fiutare chiunque non la pensi come la loro ideologia, fascista, dominante dovrebbe evitare. Ad esempio: a fronte dei venti giorni di permanenza avevo solo una notte di prenotazione, per giunta in un ostello nel quartiere arabo di Gerusalemme; ho detto loro che in quanto studente di religioni e storia, e come cristiano, pensavo di andare a Betlemme a visitare la basilica della natività, ma lì ho avuto l ‘ impressione che il mio aspetto, camuffato si, ma forse non completamente, da ‘uaglione più vicino ad un centro sociale che ad una parrocchia, non li rendesse molto rilassati.
Dopo l’ultimo interrogatorio delle ore 3:30 am circa, rimasto solo (durante gli altri interrogatori in sala d’attesa eravamo sempre più di cinque) e dopo avermi intimorito dicendomi che se non avessi detto velocemente la verità sarei stato portato in prigione ed affidato alle forze speciali, e dopo aver ribadito che la verità era che io ero uno studente, ora turista, m’hanno dato del bugiardo e sono stato aggradato dalla presenza di due giovani che presidiavano l’accesso a quella che ben presto , da sala d’attesa sarebbe diventata la mia cella.
Trattato, piuttosto guardato (sarebbe stato troppo umano rivolgermi la parola), come se fossi colpevole di chissà quale colpa mi è stata negata la possibilità di andare in bagno, fare due passi, contattare qualcuno: i miei genitori, un avvocato, l’ambasciata. Solo ed in attesa di chi sa cosa, ripetevo loro (con il mio inglese povero, stanco ma determinato) di avere dei diritti e di pensare di essere atterrato in uno stato democratico, la risposta verbale ripetuta un paio di volte era: ” Shut up”, ” You have no rights!”, è bastato poco perché decidessero di chiudermi la bocca con la forza, mettermi a sedere ed ammanettarmi entrambi polsi ad una scomodissima poltroncina. Nell’ attesa di non sapevo cosa, ero oggetto (e sottolineo oggetto) dell’attenzione di un via vai di altri lavoratori dell’aeroporto, che in attesa che il rumoroso distributore di caffè o coca-cola provvedesse a dissetarli, non mancavano occasione di deridermi, fotografarmi o soltanto disprezzarmi appiccicando sul mio volto i loro sguardi.
Al risveglio, a polsi slegati, mi è stato offerto un panino, dell’acqua e la possibilità di andare in bagno, dopo essere stato accompagnato a cercare un bagaglio di cui non ho avuto più notizia, sono stato semi denudato e sottoposto, in compagnia del mio bagaglio a mano, ad inutili, fasulli e fastidiosi controlli.
In prima mattinata sono stato caricato su un furgone e trasferito in una cella sempre all’interno dello stesso aeroporto, le mie gentili e stanche richieste di voler chiamare i miei cari venivano puntualmente ignorate, così come ignorate erano le domande su dove stessimo andando. Nella fetidissima cella a me destinata ho incontrato due ragazzi, i primi a rassicurarmi sul fatto che sarei stato trattenuto lì finché non mi avessero rimpatriato.
La consapevolezza che trattamenti del genere, ma ahimé, anche ben peggiori, sono prassi in Israele, ed il fatto di avere come modelli di condotta Gramsci o Mandela, hanno reso le ore in cattività meno brutali di quanto esse in realtà sono state.
Nel primo pomeriggio dello stesso giorno, tre agosto, sono stato imbarcato sull’aereo per Kiev. Nonostante mi avessero assicurato che a destinazione qualcuno mi avrebbe preso in consegna e spedito a Roma, all’arrivo in Ucraina sono stato brutalmente accompagnato all’uscita dal personale dell’Ukraine International Airlines. Ci tengo a precisare che dal mio arrivo all’aeroporto di Tel Aviv sono stato reso vulnerabile dalla confisca del passaporto, il quale , trattenuto dalle hostess del volo, mi è stato reso solo allorquando arrivato a Kiev mi hanno accompagnato all’uscita.
Quello che so è che l’espulsione da Israele comporta un divieto di ritorno valido per dieci anni, divieto che, nel caso tornassi prima del 2024, verrebbe prolungato a vita.
Questa esperienza ha soddisfatto in parte la motivazione del mio viaggio in Palestina: sentirmi, minimamente, un palestinese. Ho provato sulla pelle cosa vuole dire essere punito immotivatamente ed ingiustificatamente, ho, ed avrò almeno per dieci anni, avuto motivo di capire l’odio che sgorga da un individuo privato della propria libertà di movimento ed inibito del sano diritto di difendersi.
È necessario, a mio avviso, informarsi sulle passate e continue violazioni dei diritti umani da parte del Governo Israeliano. Tutti noi abbiamo voce in capitolo e siamo responsabili delle circa 7000 persone (delle quali circa 500 bambini) detenute nelle prigioni israeliane, la maggior parte senza alcun accusa o processo o ancora delle vittime dei bombardamenti di Gaza.
Lo strumento di resistenza non violento al quale la maggioranza delle organizzazioni della società civile Palestinese chiedono di aderire, ispirati dalla lotta dei Sudafricani contro l’apartheid e nello spirito di solidarietà internazionale, coerenza morale e resistenza all’ingiustizia e all’oppressione, è la campagna per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), ormai un diffuso movimento internazionale che predica il boicottaggio, il ritiro degli investimenti e l’applicazione di sanzioni contro lo stato di Israele fino a quando non rispetterà il Diritto Internazionale ed i Principi Universali dei Diritti dell’Uomo.
Concludo citando Desmond Tutu, che insieme a Nelson Mandela fu tra gli artefici della lotta contro il regime razzista in Sud Africa, il quale rivolgendosi a chi si dichiarava neutrale rispetto al conflitto che contrapponeva la minoranza bianca alla maggioranza nera in quel paese, disse: “ se siete neutrali in situazioni di ingiustizia, avete scelto la parte dell’oppressore”.