Con i semi che germogliano – Esperienza di Margherita

È quasi l’alba. Ci siamo accordatə per andare in un campo a cinque minuti dal Cambodian  Youth Action Learning Center, dove ci troviamo, per vederla. Sono le cinque e, per Chana, volontaria cambogiana di 14 anni che ci ha guidato fino ad ora, è l’ultimo giorno qui. Vogliamo condividere questo momento tuttə insieme. È ancora buio quando, in fila indiana, attraversiamo il vialone, arriviamo al campo e, in silenzio, ci sediamo su degli sgabelli.

Davanti a noi c’è una risaia sconfinata, una casetta sulla sinistra e Simba, il cane che ci ha accompagnato in queste due settimane, che continua a correre avanti e indietro. Nessunə parla. Nel silenzio penso al fatto che sono dall’altra parte del mondo, che sono arrivata qui da sola ma non mi sento più sola, e penso anche a quanto mi sembri impossibile che da domani non ascolterò più Chana parlare dei suoi sogni, così simili ai miei. Chana è partita poco dopo e mi ha ricordato di guardare, alle 11, se il fiore che mi aveva indicato nel giardino si rivolgesse verso il sole. Io l’avevo presa in giro: “Ma non è possibile che lo faccia alle 11 precise!” Lei mi aveva guardato con sicurezza: “Qua, quei fiori viola alle 11 di mattina si girano verso il sole.”

Una persona si prende cura di un giardino rigoglioso, pieno di fiori e verdure, vicino a una casa circondata da palme sotto un cielo azzurro e terso.


Mi chiamo Margherita e sono una volontaria dello SCI da quattro anni. Ho studiato Fisica, e sto attualmente facendo un dottorato in Nanoscienze, a Pisa.  L’anno scorso ho partecipato a un campo di volontariato nel sud della Cambogia, vicino Kampot. Sono partita perché sentivo il bisogno di uscire dalla mia quotidianità, di allontanarmi dalla mia zona protetta, di crearne per un po’ una completamente diversa, da condividere con altrə, svolgendo attività che mi emozionavano ma a cui non riuscivo a dare spazio nella vita come avrei voluto. Avevo già conosciuto il Sud-Est Asiatico tramite il Vietnam, ma solo in adolescenza, in un viaggio turistico di cui avevo ricordi sbiaditi, legati a una “me” ormai lontana, che si doveva ancora conoscere meglio. Ero curiosa di scoprire come la “nuova me” avrebbe vissuto quei luoghi e volevo immergermi nell’atmosfera magica che circonda un po’ la Cambogia. Così ho deciso di trascorrere due settimane in un campo di volontariato a Kampot per insegnare inglese a due classi di bambinə delle scuole elementari.

Ancora mi risuona nelle orecchie il “Teacher Margherita! Teacher Margherita!” che mi urlavano le bambine appena mi vedevano, prima di corrermi incontro e abbracciarmi. Al CYA passavano tante volontarie e volontari, i cui nomi erano scritti con la pittura sui muri di fronte al giardino, ma bastavano pochi giorni perché le bambine imparassero il tuo nome. Tuttə arrivavano nel pomeriggio, dopo aver passato la mattina a scuola. Qui imparavano l’inglese, che non veniva insegnato altrove, e un tempo anche le basi dell’informatica. Però, mi raccontava Chana, i computer ormai non funzionavano più: durante il COVID il villaggio era stato abbandonato e, con la pioggia, si erano danneggiati. La lezione durava due ore nel pomeriggio, il fine era quello di fornire parole per farlə parlare di loro stessə, di cosa facevano, di chi erano e di cosa avrebbero voluto essere e, per noi, era bellissimo scoprirlo e provare a trovarsi  in una lingua comune. Alla fine si giocava ancora, usando le parole appena imparate, per poi lasciarlə andare, sempre con grandi sorrisi, in mezzo alle risaie.

Uno studente scrive su una lavagna in un'aula piena di libri, illustrando le indicazioni stradali e una mappa di Phnom Penh.

Lə volontariə avevano caratteristiche molto diverse, e questo facilitava il confronto con la varietà caratteriale dellə bambinə: c’era chi era più teatrale e giocoso, e preferiva insegnare alla classe dellə piccolə, e chi, come Eriko e Koko, mie compagne di stanza, era più rigorosə, e preparava ogni lezione in anticipo ripetendola più volte, accogliendo sempre ogni tua idea con un entusiasmo a cui io non ero abituata. Della preparazione delle lezioni ricordo che mi piaceva non sentire gerarchie: ogni pensiero veniva accolto, non era importante da dove provenisse. Era bello condividere quello spazio in modo orizzontale, senza giudizi, con il solo desiderio di costruire qualcosa insieme. Ricordo anche quanto fosse bello rendersi conto che potevamo capirci con lə bambinə: che l’inglese poteva essere insegnato, anche se con fatica, senza avere una lingua in comune, a patto che noi ci sforzassimo di imparare un po’ di khmer (e che Chana ogni tanto ristabilisse l’ordine prendendoci un po’ in giro). E poi ricordo il silenzio che calava quando, dopo aver saltato per l’ultima volta la corda, lə bambinə se ne andavano, lasciandoci lì, sfinitə ma sorridenti, a dirci: “Oggi è andata meglio, e a te?” mentre il sole iniziava a tramontare e gli insetti facevano un rumore assordante.

Un gruppo di persone e un bambino in bicicletta in un paesaggio rurale al tramonto, con montagne e palme sullo sfondo.

Mi porto dentro tutte queste emozioni. Le ho portate con me anche quando, la settimana successiva, ho viaggiato nel nord della Cambogia, più turistico, da sola e con Eriko, visitando i templi immersi nella natura e meravigliandomi di come questa riuscisse a penetrarli, con le radici degli alberi che crescono e avvolgono la pietra. Ho anche ripercorso la storia del paese, già raccontatami dalla famiglia di Chana, e le tragedie del suo passato, che assumevano un peso ancora più forte dopo aver vissuto un frammento di resistenza del presente.

Il CYA è circondato da fiori, non solo quelli viola che si rivolgono verso il sole alle 11, ma tutti quelli piantati e curati dallə volontariə. Mi piace pensare che Chana e la sua famiglia, e lə volontariə che hanno attraversato il CYA, stanno continuando a piantare dei semi, e che piano piano i fiori sbocceranno

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