Simone racconta la sua esperienza come coordinatore campo con “Semi di comunità”

Mi chiamo Simone e nell’agosto 2022 ho coordinato per SCI Italia un campo di volontariato internazionale presso la cooperativa CSA Semi di Comunità di Roma. Nella vita lavoro in ambito totalmente diverso, sono ingegnere; non ho molto a che fare con il volontariato, l’agricoltura o la cooperazione internazionale, ma con i freddi computer. 

Ho conosciuto lo SCI a 20 anni, partecipando alla formazione e a un campo archeologico in Portogallo, organizzato da un’associazione per la conservazione del territorio.  Avevo appena terminato un percorso lungo più di un decennio negli scout, che per quanto siano stati una parte fondante della mia crescita e abbia sempre amato, fanno ancora fatica a distaccarsi da ideali di servizio cattolico/missionario/colonialista, o da tendenze poco inclusive dettate dall’inevitabile cameratismo e dal senso di appartenenza. In questo senso ho sentito che lo SCI, simile nei valori allo scoutismo ma laico e apartitico, si allineasse di più con la mia persona e con lo stato della società contemporanea in generale. 

Qualche anno dopo ho partecipato a un campo di assistenza sanitaria in Armenia insieme alla mia compagna e dopo il COVID e i suoi due anni di stallo mi sono sentito in dovere di ridare un poco del mio tempo all’associazione e ho deciso di partecipare alla formazione coordinatori e dare disponibilità a coordinare un campo.  

La differenza tra coordinare un campo e parteciparvi da volontario è minima: semplicemente avrei avuto i contatti dell’associazione ospitante, Semi di Comunità appunto, qualche settimana prima dell’inizio del campo, e avrei avuto la responsabilità di gestire la comunicazione e l’organizzazione tra essa, SCI, e i volontari internazionali. Per il resto sarei stato un volontario come gli altri, anzi per una volta avrei avuto occasione di condividere ciò che odio e amo del mio paese con persone provenienti da tutto il mondo.

Semi di comunità si può descrivere come uno dei pochissimi esempi di cooperativa nel senso vero e proprio del termine, ossia un gruppo di persone che contribuiscono una quota annuale e una parte del loro tempo/lavoro per, insieme, mettere a frutto dei piccoli terreni comuni e portarsi a casa qualche chilo di verdura alla settimana. Come cooperativa esiste solo da qualche anno, ma conta già centinaia di soci: ogni tanto, soprattutto nel weekend, ci si trova anche in quindici o venti alla volta per lavorare il terreno comune, e perché no una volta ogni tanto si organizza una festa la sera. 

Quando vengo contattato da uno dei ragazzi mi viene spiegato che il grosso del lavoro è semplice, è stato pensato apposta dai ragazzi della cooperativa per essere facilmente eseguito da chiunque con attrezzi casalinghi: coltelli da cucina, spago, guanti da lavoro e al massimo un trapiantatore da balcone. Ci sarà da diserbare (strappando a mano o con il coltello), da trapiantare germogli lungo i tubi di irrigazione, diserbare, isolare termicamente una “cella” a suon di fango, sabbia e paglia, e ho già detto diserbare? 

Io e l’altra coordinatrice, una ragazza sudafricana, siamo arrivati al campo un giorno prima degli altri, e li siamo andati a prendere in stazione insieme ai ragazzi della cooperativa. I volontari sono pochi, rispetto agli altri campi di volontariato a cui avevo partecipato all’estero: una coppia di francesi ultracinquantenni, motivati dall’entusiasmo con cui loro figlio era tornato da un campo di volontariato l’anno precedente (!), una coppia di catalani, gli unici non alla prima esperienza di volontariato, e due ragazze giovanissime, quasi coetanee, una francese e una ceca. Si sono prese benevolmente in giro da subito, perché per ognuna l’enorme valigia quadrata dell’altra si incastrava nella terra del campo un poco di più della propria. Entrambe avevano letto nell’infosheet che sarebbe stato meglio uno zaino, ma avevano anche letto che non c’era da camminare e dopotutto uno zaino grande non l’avevano nemmeno.

La vita era anch’essa semplice. Si dormiva in delle tende piazzate in un’ombreggiata radura nel bosco, difese dai cinghiali con una rete. Le docce erano sempre disponibili, ma calde solo per una decina di minuti a fine giornata, fin tanto che usciva l’acqua rimasta a scaldare sotto il sole nel tubo nero steso lungo il campo; i bagni ecologici erano a compost secco e, incredibilmente, non puzzavano. Le parti comuni erano un capannone semiaperto con un tavolo, un divano, una cucina rudimentale a gas e un biliardino, una presa della corrente comune per caricare i cellulari, un frigo per tenere l’acqua potabile e la verdura, e vecchi divani e amache disseminati in giro.  Qualche ripetitore cellulare doveva essere stato installato recentissimamente, perché la maggior parte degli operatori prendevano bene, al contrario di quanto dettomi dai ragazzi della cooperativa solo qualche giorno prima.

Le giornate erano organizzate come in qualunque luogo caldo (per tutti noi, catalani e ragazza sudafricana esclusi, la campagna romana è assai calda), ossia ci si svegliava presto, si lavorava fino a tarda mattinata, si mangiava, si pennicava finché faceva troppo caldo, si lavorava un altro paio d’ore e si cenava. Si diserbava, principalmente, al massimo si spalmava un poco di fango attorno alla “cella”, oppure si andava a dar da bere ad alcuni alberi isolati (solo se non aveva piovuto nella notte), si imparava a scacchiare ed appendere i pomodori o si disponevano i tubi d’irrigazione sui campi ancora da trapiantare, tutto in compagnia di un po’ di musica, discorsi tranquilli o meditativo silenzio. La sera se ne andavano tutti, ragazzi dipendenti della cooperativa compresi, e rimanevamo solo noi, volontari e coordinatori, e al massimo qualche grillo o cinghiale, al buio. Fortunatamente non eravamo un gruppo di festaioli, anzi, molti spesso andavano a dormire poco dopo cena e si finiva per fare qualche gioco tranquillo in tre o quattro o a parlare dei massimi sistemi. Dopotutto ci si conosce anche così.

La routine veniva spezzata solo in occasione dei trapianti: almeno due giorni a settimana, quelli in cui i soci partecipavano più numerosi, venivano dedicati a cercare di trapiantare più germogli possible, in fila, lungo i tubi d’irrigazione. La sera non mancava la festa, con tanto di pizza al forno costruito in materiali ecologici. Decine di persone, uno portava la pasta, altri le farciture, uno il vino, qualcuno la cassa per la musica e tutti proponevano delle danze; si poteva fare a turni nel stendere e infarcire le pizze, infornarle o servirle in giro. Ne veniva fuori una vera e propria festa di paese.

Era in queste occasioni che si conoscevano le persone che più spesso venivano a donare il proprio tempo alla cooperativa, tra pensionati, lavoratori in cerca di un sabato spensierato, o anche ragazzi stranieri a Roma di passaggio per lavori temporanei. Proprio grazie a questi ultimi, gestori di un b&b nelle vicinanze del campo, abbiamo rimediato un pomeriggio in piscina durante una delle penniche pomeridiane. D’altronde molto altro, a parte dormire, non si poteva fare: per totale assenza di mezzi o per lo meno la loro esasperante lentezza il centro di Roma non era a portata per riempire pause di qualche ora, e non importa quante volte lo si avesse scritto nell’infosheet, i volontari avrebbero sperato tutti fino all’ultimo di trovare una soluzione, rimanendo delusi.

 

La gita a Roma quindi era comprensibilmente molto attesa: la sera tutti hanno preparato i propri zainetti e abbiamo passato ore a scegliere cosa vedere e come dividerci a seconda di chi volesse vedere cosa. Avremmo passato la mattina a Bracciano e il pomeriggio e tutto il giorno seguente a Roma, arrangiandoci con i passaggi per tornare a dormire al campo. La notte però ha piovuto, e come d’abitudine i ragazzi della cooperativa, non dovendo più seguire le onerose operazioni di irrigazione mattutina, se la sono presa comoda. La gita a bracciano si è spostata dalla mattina al pomeriggio, e Roma dal pomeriggio al… solo giorno seguente. Non c’è stato spazio per molto dispiacere, perché in breve tempo si è escogitata una soluzione: farci portare a Roma la sera e passare la notte a “La Città dell’Utopia”.

Vedere Roma illuminata, il Colosseo, il Pantheon e il Tevere è bastato a far svanire il dispiacere di aver perso qualche ora, ma non ha cancellato la sensazione, nuova anche per me, dell’essere così stravolti nei piani da una innocua pioggerellina. Tale è la vita dell’agricoltore, sempre in balia del meteo, ci dicevano i ragazzi della cooperativa. È in questi momenti secondo me, e questo sono sicuro l’abbiano ben capito tutti i volontari, che un campo mostra il suo senso: nel riuscire a entrare per un attimo nella vita delle persone che lì al campo ci vivono. Perché è anche per questo che il campo hanno deciso di organizzarlo: condividere un pezzetto della propria vita. 

Per ritornare al campo dopo la gita a Roma non ci siamo nemmeno crucciati del fatto che non ci fossero abbastanza passaggi per portare tutti. Autostop e via. 

A presto!

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