Articolo di Taghla Brahim Salem, volontaria di Shanti Sahara, associazione di volontariato che si occupa di minori disabili nei campi profughi saharawi, attraverso progetti di sostegno sanitario in Italia e sul campo.
Nella seconda metà degli anni settanta, gli anni delle rivoluzioni, dei movimenti di indipendenza e di legittimazione della maggior parte degli stati attuali, quando ormai si andava terminando il processo di decolonizzazione dell’Africa, il Sahara Occidentale rimaneva l’ultima colonia spagnola del continente. Era il 10 maggio del 1973 quando vedeva la luce il Fronte Polisario, ovvero il movimento di liberazione saharawi, guidato da El Ouali, uomo comune destinato a diventare un leader e un simbolo della lotta.
La Spagna, in una situazione di transizione verso la democrazia, si ritira dal paese senza completare il processo di decolonizzazione chiesto dalle Nazioni Unite. Ed è con i famosi “Accordi Tripartiti” che il governo madrileno cede l’amministrazione di quei territori ai due stati confinanti, Marocco e Mauritania.
Se sulla carta già erano state determinate le sorti del Sahara Occidentale, con l’organizzazione da parte del Marocco della “Marcia Verde” si ha l’effettiva occupazione del territorio da forze ostili: oltre 350.000 coloni invadono le principali città privando la popolazione delle proprie abitazioni.
Nel caos dei bombardamenti e degli attacchi, molte famiglie si separarono, molti uomini si unirono al Fronte Polisario per combattere, mentre i civili fuggirono a piedi in zone controllate dagli indipendentisti sahrawi. Per molti nella fuga si intravede l’unica flebile speranza di sopravvivenza e la maggior parte della popolazione autoctona si vede costretta a questa scelta. Tra i molti, i miei genitori che portano, ancora oggi, vivido il ricordo di quei giorni di terrore ed incertezza.
Dopo mesi di guerra e la conseguente perdita di molti civili, soprattutto per le frequenti e massicce incursioni aeree marocchine, l’Algeria offre ai sahrawi una parte del proprio territorio, lontano dai bombardamenti, dove vengono organizzati i campi profughi e le prime tendopoli. Nel silenzio del deserto, uno dei deserti più aridi e inospitali al mondo, in queste tendopoli di fortuna vicino alla città algerina di Tindouf, sono nata io, 30 anni fa. E come me molti, troppi, sono nati e cresciuti chiamando casa una tenda di fortuna in mezzo al niente, con l’acqua portata da autobotti che ogni 25-30 giorni riempiono le piccole cisterne e con il clima che alterna periodi aridi a devastanti alluvioni che ogni volta distruggono tutto quanto è stato costruito con mattoni di sabbia.
Intanto il Fronte Polisario, temendo che il Marocco potesse occupare il vuoto istituzionale lasciato dalla partenza degli spagnoli, proclama la RASD, Repubblica Araba Sahrawi Democratica creando così le basi di uno Stato che esercita la propria sovranità effettiva sui campi di rifugiati a sud di Tindouf e su un quarto dei territori liberati, e che solo teoricamente ha potere su tutto il territorio del Sahara Occidentale.
Dopo 4 anni di conflitto armato, la Mauritania decide di ritirarsi dal mio paese e di riconoscere la RASD, ma il Marocco continua ad occupare l’altra parte del territorio iniziando a costruire un muro di rocce e sabbia, lungo 2.720 km (1). Per noi sahrawi rappresenta il cosiddetto “muro della vergogna”, disseminato di postazioni militari, filo spinato, campi minati e sofisticati sistemi radar. Un’impresa a dir poco ciclopica, iniziata nel 1980 e terminata sette anni dopo, mirata fin dal principio ad isolare la parte economicamente utile (Smara, Al-Aaiun e le miniere di fosfati di Bou Craa) dal resto del territorio.
In questo modo la popolazione si ritrova divisa da un confine invalicabile: da una parte i campi rifugiati nel sud-ovest dell’Algeria, organizzati in tendopoli e completamente dipendenti dagli aiuti internazionali, dall’altra i territori occupati, condannati a vivere sotto la difficile dominazione marocchina. Qui permangono, ancora oggi, condizioni di emarginazione sociale, di controllo sulle mobilitazioni, di divieto di espressione del dissenso, aggravate dalle detenzioni arbitrarie, dalle torture e dall’uso della forza.
In termini economici, la guerra costa molto al Marocco e intanto la questione passa in mano alle Nazioni Unite che nel 1991 dichiarano il cessate il fuoco istituendo una missione ONU (MINURSO) con il compito di indire un referendum nel Sahara Occidentale, referendum ostacolato a più riprese dal Marocco, poiché tra le opzioni prevede l’indipendenza.
Nonostante le pressioni del Polisario e di altri paesi africani, la MINURSO rimane l’unica missione delle Nazioni Unite a non avere il mandato di controllo sulla violazione dei diritti umani, osteggiato dal Marocco col sostegno della Francia (membro permanente nel Consiglio di sicurezza ONU e quindi con diritto di veto). Molti Stati si sono pronunciati a favore dell’ampliamento del mandato della missione ONU, reso ancora più urgente dopo gli episodi del novembre 2010 avvenuti a Gdeim Izik, a 12 km da Al-Aaiun: in questa città si assiste alla scintilla che, come afferma Noam Chomsky, scatena le cosiddette “primavere arabe”, una grande manifestazione pacifica nei territori occupati che vede l’installazione di molte jaimas (tende) al fine di denunciare le intollerabili condizioni economiche e sociali in cui vivono i sahrawi sotto occupazione. L’accampamento di Gdeim Izik vede la partecipazione di circa 20.000 persone ed é una delle più grandi dimostrazioni contro gli abusi, le torture, gli arresti arbitrari e lo sfruttamento delle risorse naturali. Purtroppo il campo di protesta pacifica di Gdeim Izik viene isolato attraverso la costruzione di diversi muri e recinzioni, e dopo aver effettuato un embargo mediatico, l’esercito marocchino rade al suolo l’accampamento, attraverso l’utilizzo di elicotteri, gas lacrimogeni, cannoni ad acqua.
Anche in questa circostanza non mancano morti e feriti.
Già negli anni ’70 la Corte Internazionale di Giustizia afferma il diritto all’autodeterminazione del popolo sahrawi, così come da sempre dichiarato dalle risoluzioni ONU in cui si parla anche di indipendenza.
Il Sahara Occidentale, al contrario del Marocco che è l’unico paese africano a non farne parte, è membro fondatore dell’Unione Africana, il cui attuale vicepresidente è sahrawi; la Repubblica Araba Sahrawi Democratica è riconosciuta da ben 84 paesi e nessuno Stato riconosce la sovranità marocchina sull’ex colonia spagnola.
Ad oggi il Sahara Occidentale rappresenta uno degli ultimi esempi di decolonizzazione incompleta rimanendo una ferita aperta da oltre 40 anni che necessita di un maggior coinvolgimento della comunità internazionale al fine di superare la situazione di stallo e organizzare il referendum di autodeterminazione.
Il mio popolo ha sofferto l’esilio, un genocidio (2), persecuzioni (3), l’occupazione, ma continua a lottare per ciò che gli spetta, per la propria terra, per la propria cultura, per la propria identità.
Sono più di 40 anni che siamo in attesa di celebrare il referendum e, l’ONU, insieme alla comunità internazionale ha una grave responsabilità nei confronti della nostra Repubblica: si mostra cieca di fronte al principio di autodeterminazione, uno dei principali diritti riconosciuti a ciascun popolo, e lascia prevalere la legge del più forte, la legge di uno Stato che, aiutato politicamente, militarmente e finanziariamente da paesi occidentali come Francia e Stati Uniti, non si fa scrupoli ad usare la forza contro una popolazione pacifica, pur di mantenerne il controllo economico.
Siamo un popolo molto paziente e pacifico, che ha fatto della diplomazia la sua unica arma, e che pur diviso fisicamente rimane unito per un unico obiettivo: vedere un giorno il proprio paese indipendente e libero senza dover più sopravvivere grazie agli aiuti umanitari.
Noi sahrawi continueremo a lottare per la nostra autodeterminazione con dignità e vigore, e, nonostante le innumerevoli ingiustizie subite nei territori occupati, le nuove generazioni nei campi profughi manterranno sempre viva la speranza di potersi ricongiungere in un’unica forte nazione e di poter tornare a vivere da uomini liberi.
Io sono Sahrawi, una rifugiata dei campi profughi, sono nata in quei campi e non ho mai visto la terra di origine del mio popolo, la mia terra. Questa realtà triste e dolorosa, lascia il segno nella vita di tutti noi che viviamo nella speranza di poter riavere un giorno la nostra terra, il luogo dove poter tornare a vivere liberi e uniti.
(1) https://www.amnesty.org/en/countries/middle-east-and-north-africa/morocco/report-morocco/