L’articolo è stato scritto da Irene Ottolini, che nel luglio 2016 ha partecipato a un campo di volontariato SCI in Islanda.
Riuscite a immaginare un luogo che come coordinate ha 64°N di latitudine? Siete nel punto più estremo, tangente il circolo polare artico, oltre il quale c’è spazio solo per l’immaginazione. Quindi mettetevi comodi, attenti a non oltrepassare il confine, perché oltre non esiste più strada, passaggio, sentiero, o rotta. Quanto può essere suggestivo un luogo del genere? Impossibile non rimanerne sedotti…Per me fu una di quelle volte in cui addirittura semplici numeri ebbero la capacità di evocare universi sconosciuti, senza tracciarne la fisionomia, ma lasciando dietro di sé il chiaro sentore di occasione irripetibile e, con il classico entusiasmo portentoso e travolgente dei vent’anni, non ci pensai due volte quando lessi la destinazione “Islanda” nella lista dei campi di volontariato proposti dal Servizio Civile Internazionale.
Non fu difficile organizzare la partenza (cosa che, forse, mi preoccupava più di tutte, essendo alle prime armi in fatto di campi), perché lo “staff” dello SCI fu da subito molto disponibile ed efficace nel mettermi in contatto con l’associazione SEEDS, che ospitava i campi in Islanda, e in poco tempo mi ritrovai seduta su una valigia troppo piena, cercando di chiudere la cerniera senza rompere nulla. Le tratte Venezia-Keflavik purtroppo non sono dirette e fu un viaggio interminabile (se non altro per gli scali, quasi più lunghi dei voli), ma non mi sono mai lasciata intimidire dai lunghi viaggi, quantomeno perché danno veramente l’idea di aver raggiunto un posto, molto più di quei voli istantanei che annullano le distanze.
Arrivai a Keflavik a mezzanotte di un giorno alla fine di luglio con il sole ancora alto. Sostenuta da un inaspettato e incrollabile ottimismo, dimenticandomi della stanchezza, trovai senza difficoltà la navetta per Reykjavik, la mia destinazione per quella notte. Ricordo bene quel viaggio in pullman: fu il mio primo assaggio dei paesaggi islandesi e ne rimasi totalmente affascinata. Non avevo mai visto nulla di simile e assaporavo con sguardo insaziabile le sterminate distese di rocce fondersi con la vegetazione locale, illuminate dal sole di mezzanotte, in un connubio di terra, roccia, licheni e acqua, in mezzo solo la strada asfaltata, quasi una concessione di quello sfondo selvaggio che si era lasciato addomesticare per quella lingua d’asfalto. Nonostante l’assenza di tracce umane, non mi sentii affatto dispersa nel nulla: era, al contrario, molto riposante per gli occhi e distensivo per la mente, come una boccata d’ossigeno. Il paesaggio cominciò a cambiare quando arrivammo nei pressi di Reykjavik e allora cominciarono a delinearsi i profili delle case, delle strade, dei semafori e tutto ciò che, in definitiva, avevo lasciato molte ore prima.
Il campo a cui ero iscritta si svolgeva a Reykholar, un paesino a 230km da Reykjavik, e il mio compito insieme a quello degli altri volontari era un indefinito e generico supporto organizzativo al festival di tradizioni e cultura locali. Con altri tre volontari viaggiammo in pullman fino alla regione cosiddetta “Westfjords” (fiordi dell’ovest) e raggiunsi così la destinazione finale.
Reykholar è un paesino costruito alle pendici di un monte e affacciato sui fiordi, popolazione: 135 abitanti, di cui molti bambini e adulti sopra i 35 anni; il gap riguarda i ventenni, quasi tutti concentrati nelle principali città islandesi. Il nostro alloggio era previsto nella scuola locale. Le scuole islandesi sono organizzate in modo da garantire agli studenti un riparo in caso di maltempo e condizioni atmosferiche sfavorevoli, tali da rendere difficile il ritorno a casa, per cui molte strutture sono dotate di camere da letto, bagni e cucina. Fu una vera fortuna perché ero pronta a ben altro, come tende e accampamenti alla buona, quando, invece, ci ritrovammo ad avere addirittura una camera da letto per ciascuno.
Il gruppo di volontari riuniva ragazzi da tutto il mondo: il leader era un ungherese, gli altri erano due spagnoli e una bretone, più avanti ci avrebbe raggiunto anche un ragazzo americano del New Jersey, incaricato di farci delle foto. Si instaurò subito un bel clima, senz’altro merito di Gabor (il nostro leader) che ci mise l’energia giusta, ma anche del fatto che eravamo tutti ben disposti a lavorare e a condividere al meglio quei dieci giorni. Cucinavamo a turno e in coppia, un modo ulteriore per conoscerci, e fu l’occasione per sperimentare cibi tipici di altri luoghi (e anche qualche pasta stracotta, ma ben accetta fuori dall’Italia, dove sarebbe un’eresia!!!). Una sera fu dedicata all’international dinner, in cui ciascuno di noi aveva il compito di cucinare il piatto tipico del proprio paese, con i cibi che, eventualmente, eravamo riusciti a portare da casa. Furono tutti entusiasti della carbonara senza panna (non si capisce perché oltre il confine dell’Italia la carbonara venga automaticamente interpretata con la panna) con pasta italiana e vero pecorino; gli spagnoli condivisero vari salumi tipici, dall’Ungheria assaggiammo il langos (cibo tipico della street food) e dalla Bretagna le varie salse e, la mattina seguente, omelette.
A ritmo di “Bombastic” e di storpiature inglesi passò il tempo, ridendo e scherzando, quasi senza renderci conto del lavoro di ogni giorno. I compiti che ci vennero assegnati non furono particolarmente difficili: per lo più gli organizzatori del festival ci chiesero di spostare tavoli e sedie, a volte anche montare le barche del museo, gonfiare e attaccare per la città palloncini e così via. Presto scoprimmo quanto fosse piccolo quel paesino: c’erano solo tre luoghi d’attrazione, di cui uno, la scuola, fu il primo in cui mettemmo piede; gli altri si riducevano alla piscina e al museo, che fungeva anche da cinema e da luogo per la vendita di alcoolici (soprattutto birre, tra cui anche quella alle alghe di produzione locale), il tutto gestito da una donna di cui non avremmo mai saputo dire l’età, per il suo viso giovane, quasi ventenne, ma i modi bruschi e molto bossy, forse più comuni in una donna di età avanzata.
Un pomeriggio la gente del luogo organizzò una festa per i bambini in piscina: il nostro compito era gonfiare enormi palloni di plastica, infilarci dentro i bambini e lanciarli in piscina per tre minuti, per poi ripescarli. Il tutto a ritmo di canzoni che scoprimmo essere inaspettatamente familiari, infatti si trattava de “il ballo del qua qua” e altre, ma in islandese! Un altro episodio divertente fu la partita di calcio che organizzarono su un campo cosparso di alghe. Immaginate che scivoloni (e come ne uscirono i calciatori: più o meno dello stesso colore del campo)! Arbitrammo una gara di pedalò, al termine della quale era previsto un falò e il concerto di Bjartmar, cantante islandese, che pare fosse molto famoso, al punto che gli altri spettatori erano convinti che noi volontari fossimo venuti dall’Italia, dall’Ungheria e dalla Spagna apposta per assistere al concerto (quando a malapena riuscivamo a pronunciare il suo nome!). Vi partecipò gente più o meno attempata, ma con un entusiasmo giovanile contagioso, che mi fece desiderare più volte di riuscire a capire l’islandese. Al termine della serata due anziane signore furono così gentili da riportarci alla scuola di Reykholar in macchina, ma ogni nostro tentativo di conversazione cadde nel vuoto, perché, come due teenager appena tornate dal concerto del loro cantante preferito, per tutto il tragitto non fecero che parlare fittamente tra loro e lanciarsi in esclamazioni entusiaste (e incomprensibili).