RaccontiamoSCI: Pace a Esnes – Racconto di viaggio Paolo Maddonni

Pace a Esnes, cento anni dopo

Paolo Maddonni – agosto 2020

Ho concluso il mio viaggio in Francia in bicicletta il 22 agosto 2020, nel pomeriggio, in una isolata stazione delle ferrovie alta velocità nel bel mezzo del dipartimento del fiume Mosa, a una quarantina di chilometri da Verdun. È stato il primo viaggio interamente in bicicletta nella mia vita, all’età di 58 anni. Solo. Nessuna esperienza, quindi. Male avere troppi bagagli, troppo pesanti sulla bici e sulla schiena. Male non avere familiarità con i dispositivi mobili, le mappe internet, l’orientamento satellitare. Bene invece fidarsi delle mappe di carta. Bene soprattutto essere in grado di parlare quel po’ di francese utile per chiedere informazioni quando mi sono perso, tre volte… Bene scoprire di avere ancora buone gambe. Bene per aver avuto buona fortuna con il tempo, solo poche gocce di pioggia in otto giorni. Bene per avere uno scopo personale per il viaggio, al di là del semplice trascorrere delle vacanze. Benissimo averlo raggiunto!

In primavera avevo fatto parte del progetto “2020 SCI peace bike tour”, l’idea di mettere insieme vecchi e nuovi volontari per celebrare un secolo di storia del Service Civil International. Si sarebbe dovuto andare da Amsterdam a Bruxelles in un gruppo di trenta persone, partendo il 17 agosto, data di nascita di Pierre Ceresole, e passare in alcuni luoghi legati a campi e progetti, forse anche a Bilthoven, dove nell’estate del 1919, si incontrarono per la prima volta i pacifisti per guardarsi in faccia dopo l’orrore della Prima guerra mondiale. Tutto era pronto, avevo faticosamente organizzato il mio complicato e lungo viaggio con bicicletta in spalla con treni e bus fino ad Amsterdam ma, all’improvviso, due settimane prima di incontrarci, tutto è stato cancellato: il virus COVID-19 – così violento in tutto il mondo in primavera – è tornato a farsi minaccioso in Belgio, impedendo attività di gruppo. La delusione e la frustrazione mi hanno portato a provare un’alternativa. Avevo già in mente l’idea di continuare dopo il tour collettivo dopo Bruxelles, se ne avessi avuto le forze, con un’estensione personale verso la Francia e cercando di raggiungere Esnes, il paesino dove la storia SCI ha preso vita cento anni fa. Così, ho mantenuto questa seconda parte del mio viaggio. Ho caricato la mia pesante bicicletta su un treno a Roma e poi su un autobus a Torino e poi su un altro treno a Parigi; mi sono anche caricato di una nuova energia.

Ho iniziato quindi dalla regione delle Ardenne il 15 agosto, ho seguito il fiume Mosa verso sud, sulla pista ciclabile chiamata “Voie Verte”. Ho organizzato il mio tour in tre sezioni, fermandomi in alloggi due o tre notti per girare senza bagaglio i giorni seguenti. Ho lasciato di proposito Esnes come ultima destinazione: volevo avere il tempo di progredire lentamente, prendendo familiarità con la bici, con il mio viaggio e con le mie aspettative. I primi tre giorni ho vagato facilmente per molti chilometri nel verdissimo parco naturale delle Ardenne tra i fiumi e i boschi, su piste ciclabili perfette e facili. Molta quiete, qualche ciclista, famiglie. Un pomeriggio lo passo a passeggio in giro per Charlevilles, città natale di Rimbaud. Il secondo passaggio è il più lungo, 120 chilometri a sud: aree remote in distese di campi, niente più pista ciclabile ma strade provinciali poco trafficate e qualche collina impegnativa. In una pensione gestita da una coppia olandese, ho incontrato casualmente altri ciclisti provenienti da vari paesi. Abbiamo cenato insieme, bello avere una conversazione in un gruppo internazionale: come in un campo di lavoro!

Ultima tappa: sulla strada verso l’alloggio vicino a Verdun, incontro il bivio con l’indicazione: “Esnes- en- Argonne, 6 km”. Un po’ di emozione. Esito, con l’idea di andare subito. Decido di posare prima il bagaglio e sulla bici più leggera mi trovo nell’ora più calda del giorno più soleggiato dell’estate francese ad attraversare vaste campagne ben lavorate e piccoli paesi ordinati, praticamente deserti, senza nemmeno un bar all’incrocio. Finalmente, vedo da lontano il campanile della chiesa di Esnes, che oggi si chiama Esnes-en-Argonne, avendo aggiunto con orgoglio il nome della zona, come tutti gli altri paesi vicini, fieri della difesa del fronte nella Prima guerra mondiale. Autoscatto al cartello d’ingresso al paese, una mucca bianca mi si avvicina incuriosita. Poche case lungo la strada, nessuno in vista, nemmeno rumori domestici. Pochi metri e arrivo a una piazzetta con aiuole, di fronte alla chiesa dall’aguzzo tetto nero. Su un lato, il piccolo municipio. Sulla porta accanto, l’annuncio di un’esposizione permanente sulla guerra 1914-1918 e la ricostruzione in Esnes. M’illumino davanti a un pannello commemorativo: “Dopo la guerra, durante gli anni ’20, Esnes è stato ricostruito su iniziativa di un architetto svizzero di nome Pierre Ceresole e di alcuni volontari. È stato il primo paese della zona ad essere ricostruito”.

È per me come ritrovare in un cassetto una vecchia fotografia di famiglia!

Sono immerso nel silenzio e nei miei pensieri. Una fontana sotto gli alberi della piazza mi offre acqua fresca, una panchina un po’ di riposo. La chiesa è chiusa, un cartello mostra che nel 1916 ne rimaneva in piedi solo un angolo del campanile: delle case del paese nemmeno un muro. Ricostruita nello stesso luogo, il pittore marchigiano Duilio Donzelli, emigrato prima della guerra come operaio in Lussemburgo e poi espulso per il suo attivismo socialista, l’ha affrescata nel 1934.

Riprendo la bicicletta, cerco il piccolo cimitero del paese, scorro le tombe più vecchie, dove forse giace qualcuno che viveva a Esnes nel novembre del 1920, quando sono arrivati i volontari SCI. Su qualche lapide leggo il nome Legay, quello del sindaco di allora, così si legge nei rapporti scritti da Pierre Ceresole. Non trovo invece Biéler, quello della presidentessa del Comitato di Soccorso che più di tutti aveva contestato la presenza di tedeschi, “nemici”, tra i volontari dello SCI. Due chilometri più avanti, un grande cimitero memoriale di centinaia di soldati francesi morti tutti nel 1916: croci bianche tutte uguali, in perfetto ordine geometrico, la bandiera. Nei miei giorni a Verdun ne ho incontrati molti di questi cimiteri militari, di entrambi le parti nemiche. Nel primo, di soldati tedeschi, una tomba con la croce cristiana era vicina a un’altra con la stella israelita. Amara la riflessione: vent’anni dopo non sarebbe stato più permesso a un ebreo di entrare nell’esercito tedesco.

Torno a Esnes, riempio la borraccia alla fontanella. Sto per andare via, già soddisfatto di avere raggiunto la mia meta simbolica, quando noto un’auto parcheggiata di fronte al municipio, che prima non c’era. Non so come, vinco la timidezza e prendo l’iniziativa di entrare nella porta socchiusa. Un piccolo atrio, una bacheca con avvisi sulle misure di prevenzione del coronavirus e sul rientro a scuola. Salgo delle scale di legno, nessuno in giro e nessuna voce. Intravvedo una sala con la bandiera francese, forse quella del consiglio comunale. Su una porta c’è scritto “Secrétariat”, sto per bussare quando una donna apre improvvisamente la porta e fa un salto all’indietro, spaventata. Quando le torna il respiro, mi scuso e mi presento. La signora mi dice subito: “Ah, certo il Service Civil International! Pierre Ceresole! Venga, le faccio vedere qualcosa”. Prende la mascherina e un grosso mazzo di chiavi. “Ma signora – dico a disagio – non vorrei disturbare, sono capitato così all’improvviso, Lei sta lavorando…”. “Ma si figuri! – mi risponde – Se non lo posso fare io che sono il sindaco!”. E così scopro che è la signora Véronique Adler, sindaco di Esnes già da qualche anno. Mi porta alla sala espositiva, una piccola stanza totalmente piena di immagini e ricordi del tempo della Prima guerra mondiale a Esnes. Su di un pannello, la foto di Pierre Ceresole e altri volontari di fronte al primo rifugio di legno costruito per consentire alla gente di tornare a casa in quell’inverno del 1920. Converso molto cordialmente con il sindaco, che pure non mi chiede nulla di come io sia piovuto lì quel giorno e perché. Conosce molto bene l’esperienza SCI a Esnes, anche come è finita: “La gente non era ancora pronta”. Vorrebbe organizzare qualche evento commemorativo, proprio a novembre, o l’anno prossimo. Qualcuno dello SCI internazionale l’ha già cercata. Poi apre per me anche la piccola chiesa, linda e piena di dipinti. Oggi non è usata troppo spesso, mancano i sacerdoti e comunque Esnes–en-Argonne ha oggi solo 144 abitanti, “Ma ben 40 sono bambini e adolescenti”. Anche se molto piccolo, il paese è vivo, molte persone lavorano in zona nelle aziende agricole o a Verdun, distante una ventina di chilometri. Il sindaco mi regala una penna e delle cartoline rievocative del paese. Io, del tutto impreparato per quell’incontro, in cambio le regalo un gilet azzurro, quello che avevamo prodotto per il tour in bicicletta con il logo del centenario SCI 2020.

Prima di lasciarmi alle spalle Esnes sulla mia bici, faccio un bel respiro. “Fatti e non parole”, diceva a ragione Pierre Ceresole, ma anche simboli e ricordi sono importanti per mantenere dei riferimenti morali. Ho trascorso il giorno seguente a visitare l’immensa area del campo di battaglia di Verdun: si stimano circa trecentomila morti in 300 giorni e notti di cannoneggiamenti, solo carne umana a contrastare il tiro degli obici. Una grande foresta cresce oggi sulla zona rossa dove per secoli ancora non si potrà costruire e coltivare. Diversi paesi distrutti non sono mai stati ricostruiti, il loro nome rimane solo su una targa. Mi fa piacere pensare che forse Esnes sarebbe stato tra questi, senza la scelta coraggiosa di Pierre Ceresole. Ma penso anche che, in un disastro umano così grande, deve essere stato veramente difficile per i primi volontari di SCI andare in giro da queste parti a proporre gesti di pace, promuovendo azioni comunitarie e incoraggiando la gente a sperare in un futuro diverso.

Un’ultima riflessione forte mi arriva mentre ascolto la giovane guida che introduce Ossario di Verdun, un memoriale dove vengono deposti i resti di quei soldati che di cui non è stato possibile riconoscere l’identità, tanti militi ignoti. Ce ne sono circa quattromila, ma ancora oggi ogni anno la foresta ne restituisce qualcuno, dopo un gran temporale o dei lavori nei boschi. Pare che corpi dispersi senza nome e senza tomba ce ne siano ancora circa centomila. Il ragazzo racconta, con partecipazione, che solo nel 2014 è stato possibile vincere le resistenze ideologiche per poter inumare nell’Ossario i resti di un soldato tedesco, sconosciuto nel nome ma caratterizzato da un lembo di uniforme. Prima, l’Ossario era solo per francesi e alleati. Altri due poveri resti con “la divisa di un altro colore” sono arrivati nel 2018. Tre in tutto, quindi. Come tre erano i volontari tedeschi al primo campo SCI, etichettati come nemici per sempre da alcuni cittadini di Esnes e motivo della chiusura incompleta di quel progetto di pace.

 

 

 

 

“Lavoriamo insieme, costruendo sulle cose importanti che abbiamo in comune, questa era la vera proposta: è ancora quella giusta, io credo”.

 

 

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