Pubblichiamo la testimonianza di Valentine, un volontario tedesco partecipante al campo di volontariato che avrebbe dovuto svolgersi in supporto al percorso Accoglienza Degna, presso il Làbas di Bologna, dal 6 al 19 agosto; anche Valentine era presente durante lo sgombero avvenuto la mattina dell’8 agosto 2017.
Anche prima di arrivare in Italia, già domenica 6 agosto a Colonia, sono rimasto sorpreso dalla cordialità degli italiani (in particolare se si tenta di parlare italiano). Questa impressione l’ho avuta sin da quando sono atterrato e mi è stato offerto, dai genitori amichevoli di un ragazzo che avevo incontrato in aeroporto, di portarmi fino in città. Fino a quel momento, pensavo che un simile calore umano non esistesse nei confronti dei rifugiati; poi mi sono ritrovato di fronte al pesante cancello di ferro che separa Làbas dal mondo esterno, al cui interno si svolgeva un sogno strano che difficilmente avrebbe potuto essere valido anche per il resto del mondo fuori.
Entrando, mi sono ritrovato in un ampio cortile di cemento, circondato da edifici decorati da opere di arte di strada – molto più di semplici graffiti, vere opere d’arte molto curate sopra le alte mura. Sulle panchine erano seduti gli attivisti di Làbas, che mi hanno salutato. Gli altri volontari del campo avevano un fare familiare quando li ho incontrati, immersi in una conversazione rilassata. Un po’ più tardi ci hanno condotto attraverso una grande cucina dove i nuovi arrivati creavano un certo disordine. Seduti nella penombra delle lampadine sparse, abbiamo mangiato e bevuto vino in un ambiente dove si mescolano la storia del complesso in rovina della vecchia caserma, con le sue reliquie (come uno stemma della guarnigione) e i suoi abbellimenti in termini di decorazione e di riqualificazione degli spazi. Più tardi nella spaziosa biblioteca abbiamo incontrato i profughi senza casa che vivono al Làbas, nei cui occhi si leggono il sogno e la rassegnazione. Nella penombra della luce artificiale, la biblioteca rappresenta allo stesso tempo una speranza e un tentativo ambizioso. I libri sono raggruppati per temi, c’è la rete WiFi libera e alcuni computer a disposizione, in prospettiva di poter dare ai rifugiati un’istruzione e una nuova opportunità. Tutto questo si aggiunge ai corsi di lingua tenuti dai volontari. Era un luogo di aiuto reciproco e di fiducia in cui tutti hanno aiutato tutti, non importa quanto opprimente fosse la loro situazione. C’era qualcosa di utopico e distopico allo stesso tempo: ho riconosciuto la distopia nel modo in cui queste persone tutte insieme si sono impegnate a racimolare le cose più necessarie, come libri o articoli per la casa; e l’utopia era nell’idea che anche se non si ha molto, si può vivere tutti insieme in compagnia e dignitosamente, e nessuno ha nulla di cui vergognarsi. Làbas è effettivamente risorto dalle rovine di una vecchia caserma ed è una cosa di cui essere orgogliosi, anche se il terreno legale su cui sorgeva era più che fragile.
Nel corso della successiva giornata di sole, mentre le cicale diffondevano un senso di calma profonda, ha iniziato a spargersi minacciosa la notizia che lo sgombero avrebbe avuto luogo. Nessuno ne era sicuro, ma ci siamo lo stesso preparati, mentre svolgevamo il lavoro ordinario. Abbiamo posizionato delle balle di paglia in modo da bloccare l’ingresso per i veicoli da un lato e preparato una prima colazione dove tutti potevano mangiare insieme dall’altro. Tutto era tranquillo, eccetto per la polizia che, sin dal mattino presto, aveva bloccato la strada da entrambe le direzioni. Per un tempo molto lungo non è successo niente presso l’ingresso principale, ma girava voce che le forze speciali avevano già preso d’assalto gli altri ingressi e avevano già devastato gli interni. Ciò che ne è seguito è stato di una violenza insensata. Le forze della Digos, in abiti civili, e il reparto di polizia di Stato italiana specializzata in antiterrorismo ed estremismo politico hanno attaccato il blocco umano che si era seduto pacificamente di fronte all’ingresso principale, colpendolo duramente.
La missione ha avuto successo. La missione di distruggere ciò che è stato costruito volontariamente da persone compassionevoli, da parte di persone che hanno sentito l’obbligo di rispondere a bisogni dei quali il governo italiano non si interessa. Come un alloggio dignitoso per i rifugiati e gli emarginati, i quali spesso per lo Stato italiano sono persone che non hanno diritto a nulla. Appare chiaro che anche se i cittadini di uno Stato sono di cuore aperto e caldo, questo non significa che lo Stato che li rappresenta sia poi l’immagine di queste persone.
Ma questi attivisti hanno fatto di più. Anche se hanno integrato queste persone, le hanno educate e curate, c’era da considerare un secondo livello molto più profondo. Làbas era un luogo dove ci si prendeva cura di persone la cui sopravvivenza era in grave pericolo. Era un luogo dove si praticava un’alternativa valida al culto elitario e settario delle nostre società. In Europa meridionale non sembra sia stato ancora compreso che l’abbondanza promessa dal neoliberismo non è reale, è un oppiaceo. Che non ci sono persone che hanno troppo poco perché non hanno la capacità di trovare la loro strada nel capitalismo selvaggio, perché la povertà non è un fenomeno a livello individuale, ma piuttosto un problema sistemico, strutturale. Che senza la solidarietà non si può uscire dalla povertà, che la povertà non è una colpa.
Làbas non era solo chiacchiere su una vita alternativa. Era una vera alternativa, vissuta e praticata contro la competizione reciproca e la lotta disperata per l’arricchimento economico. Era un modello che dimostrava come si può vivere di interazione umana che si preoccupa di amicizia e cooperazione e non di profitto, un modello da perseguire come dovere civico. Non ho mai pensato che questo sarebbe stato possibile, che esistono realtà solidali che creano nuovi legami al di fuori dello sfruttamento… invece ne ho conosciuto la prova, ed è stato un onore. È un peccato che il governo italiano sembra voler spazzare via le alternative alla sua incapacità di essere uno stato sociale; sgomberando queste realtà dichiara soltanto il suo fallimento.