Pubblichiamo la seconda parte del racconto di Agnese, Alberto, Ekaterina, Francesca, Marco e Martino, una delegazione di attivisti e attiviste del Servizio Civile Internazionale in visita in Libano dal 28 aprile al 2 maggio 2018. Da Beirut a Tripoli, passando per il campo profughi di Tel Abbass, fino a Minyara per conoscere l’esperienza della scuola di Malaak e ancora a Beirut nel campo di Shatila.
Da questo viaggio è nata l’idea di portare un campo di volontariato internazionale presso il campo di Tel Abbass, dal 15 al 25 luglio 2018. Qui la scheda completa del campo. Per partecipare al campo, è obbligatorio aver preso parte agli incontri di formazione di I e II livello. Per chi non ha potuto farlo, si richiede di partecipare obbligatoriamente alla formazione di I e II livello che si terrà a Bologna, dal 29 giugno al 1 luglio. Per informazioni, contattare nordsud@sci-italia.it.
Qui la prima parte del racconto.
Dell’impossibilità di un ritorno in Siria in sicurezza ce ne parla Abu Hussein, il responsabile del campo, tradotto da Alessandro e Matteo. Siamo nella tenda della famiglia di Abu e ci viene servito immediatamente del tè. Ci racconta brevemente della sua storia: è in Libano con la sua famiglia da cinque anni e in Siria facevano una vita bella. Lavorava come marmista ad Aleppo e aveva una casa di due piani. Ma in Siria tutto è stato distrutto, le città sono ormai solo scheletri vuoti e la vita è diventata impossibile.
Molti vogliono ritornare in Siria e non sono solo i bombardamenti ad impedirglielo. Ci sono anche i rischi che correrebbero varcando il confine: le violenze, le torture, la prigionia – qualora riconosciuti come disertori – o gli arruolamenti forzati. Non ci sono le condizioni di sicurezza necessarie per poter tornare in Siria. È proprio da qui, da Tel Aabbas, che è nata una proposta di pace per la Siria, scritta da chi ha subito e soffre le conseguenze della guerra sulla propria pelle.
Alessandro ci parla dei corridoi umanitari, un altro aspetto importante dell’attività di Operazione Colomba. Creare un corridoio umanitario significa individuare famiglie e strutture, in un safe country, che possano garantire accoglienza e offrire ospitalità ai profughi. L’Europa viene considerata un posto dove ricostruirsi una vita, dove tornare a guardare al futuro con una speranza. Il lavoro nel campo è anche quello di individuare le famiglie in condizioni di vulnerabilità che possano essere accettate in un percorso di ottenimento del visto per l’Italia, la Francia o il Belgio (gli unici stati europei che prevedono, in rari casi, la creazione di corridoi umanitari).
In un anno sono stati ottenuti circa 2000 visti, ma le richieste sono molte di più e pochissime vengono soddisfatte.
Si passa alle domande, a una discussione che porta i volontari di Operazione Colomba a spiegarci le difficoltà di vivere nel campo: la fatica e mentale; la tristezza e il peso delle vite distrutte di famiglie intere; la necessità di dire dei no e di porre dei limiti; ma anche la consapevolezza di essere nel posto giusto, nonostante tutte queste difficoltà.
Ormai il sole è tramontato e noi dobbiamo andare verso Minyara dove incontreremo Abdo Hsyan, che ci parlerà della scuola di Malaak e della proposta di pace per la Siria. Baci e abbracci, saluti come se i bambini ci conoscessero da anni, un po’ di amarezza sapendo che certamente non li rivedremo presto. Ci carichiamo su due furgoncini traballanti e raggiungiamo una casa. Entriamo e lì ci viene presentato Abdo Hsyan, colui che viene considerato l’ideatore della proposta di pace per la Siria: una proposta che prevede la creazione di una zona sicura dove far tornare la popolazione siriana, una zona libera dalla guerra e dove la popolazione possa vivere senza timore di soprusi, violenze e arresti. Qui potete leggere la loro proposta.
Lunedì 30 Aprile – Colmare il vuoto
Abbiamo dormito nella guesthouse della scuola di Malaak. Ci siamo arrivati di notte quindi non abbiamo capito esattamente dove fossimo. La scuola si trova non molto lontano da Tel Aabbas, tra i campi coltivati e i numerosi campi profughi della zona. Incontriamo Joyce, la coordinatrice della scuola, che lavora qui dal 2012.
Passiamo tra i bassi edifici e sbirciamo dentro le aule: mille mani ci salutano, insegnanti e bambini sorridono, le mamme in cucina mostrano orgogliose il pranzo che hanno preparato. Durante il giro Joyce ci racconta un po’ la storia di Malaak, di com’è nata tra le tende di un campo profughi siriano nei primi mesi dopo l’inizio della guerra e di come quest’esperienza si è sviluppata negli anni. Associazioni locali, singole donne e uomini si sono dati da fare per portare avanti un progetto educativo per i bambini siriani, esclusi, almeno nei primi anni di “emergenza”, dai circuiti della scuola statale libanese.
Da una piccola scuola informale all’interno di un campo profughi si è passati a una scuola vera e propria, con strutture fisse: le classi, un’aula di musica, una biblioteca, un’aula di informatica, una mensa, degli spazi esterni per giocare, un campetto da basket e un piccolo campo da calcio, dove finalmente bambini e ragazzi “vanno a scuola”. Le maestre e i maestri sono siriani e libanesi, le madri degli studenti a turno si occupano della mensa, mentre altri permettono il funzionamento della scuola a livello amministrativo e si occupano della gestione ordinaria, della pulizia e della manutenzione. Attualmente gli studenti sono circa 400 e la scuola di Malaak è aperta dalle 8 alle 14, mentre nel pomeriggio i ragazzi e le ragazze più grandi frequentano le scuole libanesi dei paesi vicini, per seguire gli stessi programmi educativi rivolti ai giovani locali (anche se le lezioni si tengono in classi separate, siriani da un lato e libanesi dall’altro).
Fino a qualche anno fa la situazione era diversa: i siriani non potevano frequentare le scuole, non si potevano iscrivere e non erano stati attivati corsi per loro. Per questo motivo gli studenti di Malaak erano molti di più, perché era l’unica scuola che apriva loro le porte. Joyce ci dà una piccola brochure su cui è riportata la frase: Malaak fills the gap (Malaak colma il vuoto). Questo è il senso della scuola: colmare il vuoto istituzionale, il vuoto educativo attorno ai siriani. Garantire quindi l’istruzione anche agli ultimi, facendo in modo che le bambine e i bambini siriani abbiano la possibilità di frequentare la scuola libanese, in cui ci sono anche lezioni in francese, lingua ufficiale in Libano, che non è conosciuta in Siria. Tutto questo significa occupare il tempo di vita dei bambini e delle bambine con attività educative e relazioni con i coetanei, tempo che altrimenti sarebbe vuoto o verrebbe riempito con il lavoro e lo sfruttamento.
Esiste anche un altro progetto importante di cui ci parla Joyce: corsi di alfabetizzazione per le donne siriane. Un progetto che dovrebbe iniziare a breve e mira ad accrescere la consapevolezza delle donne. A questo punto entriamo nella struttura usata come segreteria, dove ci offrono un caffè prima di discutere del progetto di collaborazione tra lo SCI Italia e Malaak. Joyce è molto disponibile e attenta,le spieghiamo i nostri progetti di volontariato a breve e a lungo termine, delle necessità della scuola e dell’utilità della presenza di volontari/e internazionali. Per quello che riguarda i campi di volontariato a breve termine, Joyce spiega come proprio questi siano l’occasione giusta per i/le volontari/e che hanno un piccolo progetto da realizzare: un progetto artistico, sportivo, musicale o teatrale; qualcosa da realizzare nel periodo di permanenza a Malaak. Discutiamo delle disponibilità di spazio, dei tempi e dei contributi anche economici che i volontari potrebbero dare alla scuola, cerchiamo di capire quali sono le possibilità reali di fare qualcosa e iniziamo a segnarci alcuni punti condivisi e criticità.
È però giunta l’ora di lasciare la scuola per dirigerci nuovamente verso Tripoli e tornare a Beirut.