Ripubblichiamo con piacere il racconto di Ekaterina Galeeva, una nostra volontaria partita per un campo in Giappone presso la prefettura di Tokushima svoltosi dal 14 al 20 settembre 2019. Buona lettura!
Siamo ad almeno un’ora di macchina dalla cittadina più vicina. Tutt’attorno ci sono colline con fitti boschi di conifere che da lontano sembrano ricoperte dal muschio. Sotto, a valle, si scorge appena il nastro verdeazzurro di un fiume poco profondo. Le folate di vento settembrino ancora caldo muovono i rami degli alberi colmi di agrumi. Non passa una macchina. Gli unici rumori che si sentono sono quelli degli uccelli e degli insetti e, di notte, dei cerbiatti invisibili che passano vicino casa. Qua siamo lontani dalle insegne al neon, dai grattacieli e dai treni ultra veloci di Tokyo, Osaka o qualsiasi altra grande città giapponese. Ed è proprio quello che volevo: vivere il Giappone rurale. È un mondo probabilmente destinato a scomparire dato che solo un giapponese su dieci vive in campagna e i giovani continuano a trasferirsi in città.
Ci troviamo nel villaggio di Oi sull’isola Shikoku, la più piccola e la più isolata tra le quattro isole principali dell’arcipelogo giapponese. Siamo ospiti nella casa della famiglia Ide, una coppia di agricoltori sui settant’anni. È una casa tradizionale giapponese, con tanto di porte scorrevoli, stuoie intrecciate e materassi al posto dei letti, circondata da qualche ettaro di terreno coltivato. Ide Tatsumi è nato e ha sempre vissuto in questa casa, mentre sua moglie si è trasferita qui dopo il matrimonio senza sapere nulla di agricoltura né aver mai lavorato la terra. Da questo matrimonio sono nati due figli che da diverso tempo hanno lasciato la fattoria per vivere in città. La coppia invece preferisce rimanere a Oi e vive di vendita di agrumi e di anice stellato. Noi siamo un gruppo di sei volontari internazionali e siamo qua per aiutarli con il raccolto di sudachi – un agrume piccolo, tondo e verde che i giapponesi usano per condire la tempura e le insalate – e, magari, a portare un po’ di vita in questo paese che si sta sempre di più depopolando.
Il primo giorno del raccolto è un disastro. Cogliere i sudachi è apparentemente facile: prendi le forbici, tagli, fai rotolare il frutto dentro ad una cesta ed è fatta. Ma presto scopriamo che ci sono tante complicazioni. I piccoli frutti verdi si confondono con il fogliame. In più, crescono ovunque: in cima, nella parti più basse dell’albero e anche in mezzo ai rami intrecciati. Quindi per prenderli a volte bisogna chinarsi, a volte salire sopra una cassa vuota, a volte mettersi accovaciati o addirittura sdraiati sotto gli alberi. Come se non bastasse, i rami hanno delle spine che si conficcano nella pelle nonstante indosassimo i guanti e i vestiti con le maniche lunghe. Torniamo a casa in condizioni disastrate, con i muscoli doloranti, i vestiti infangati e i graffi sanguinanti neanche fossimo stati assaliti dai gatti selvatici. In più, a fine giornata scopriamo di aver scocciato Ide-San. La sera prima ci aveva tanto raccomandato di iniziare il lavoro alle 8. Così quella mattina, compiaciuti della nostra puntualità, alle 7 e 58 ci siamo avviati verso il campo. Il tempo di arrivare e di infilarci i guanti, alle 8 e 5 minuti o neanche, abbiamo cominciato a lavorare. Eppure Tatsumi è andato dalla nostra coordinatrice Emiri a lamentarsi che il raccolto era inziato in ritardo.
Il giorno dopo va meglio. Diventiamo più agili e più bravi a prendere i sudachi senza farci pungere dalle spine. Nel pomeriggio il nostro ospite ci porta il gelato ai fagioli rossi dal gusto vagamente dolce. Non spiega però il gesto. Chiedo a Emiri se è perché la mattina siamo arrivati in anticipo. Lei ride e dice che probabilmente è per quello.
Ma a Shikoku non si vive solo di raccolto. È un’isola speciale, famosa per il cammino degli 88 templi disseminati in tutto il suo territorio. Il cammino fu fondato da Kobo Daishi, il monaco che ha portato in Giappone il buddhismo. Secondo la leggenda, visitò e meditò in ognuno di questi templi. Ogni anno moltissimi giapponesi e stranieri vengono qui per percorrere il sentiero di Shikoku a piedi, in macchina o in bici. C’è chi vuole propiziare gli dei, chi cerca un’occasione per stare un po’ da solo e riflettere o vuole semplicemente ammirare i templi arrocati sulle colline, le foreste di bambù, le cascate, le distese di verde. Il cammino non è una passeggiata, è pieno di salite e discese ripide e per percorrerlo interamente a piedi ci si può mettere fino a 60 giorni. Ide-San fa parte del comitato “ossettai”.
L’ossettai è l’ospitalità riservata ai pellegrini. Lungo il percorso ci sono tanti posti in cui possono ripararsi dal maltempo o semplicemente fermarsi per una pausa, a volte anche dormire. Tanti negozi di souvenir e piccoli alimentari offrono loro il cibo e le bevande. Ad esempio, il nostro ospite gestisce un punto di sosta dentro una scuola del villaggio in disuso (ad Oi ci sono solo due bambini e devono andare a scuola altrove) e a volte pulisce le strade dal fogliame e dalle pietre che ingombrano il passaggio dei pellegrini.
Ide-San ci tiene a farci provare da vicino cosa sia l’ossettai. Così una mattina anziché andare a fare il raccolto saliamo in montagna. Ci porta al tempio numero 19, Tatsue-ji. Insieme agli altri membri del comitato ossettai, anche loro con i capelli bianchi e i volti corrugati, allestiamo un banchetto e prepariamo delle bustine con gli snack e bicchieri con il tè freddo, da offrire ai pellegrini stanchi che arrivano al tempio. Gli ohenro-san – così vengono chiamati rispettosamente – che arrivano a piedi gocciolano di sudore e sembrano esausti. Accolgono con gratitudine i bicchieri di tè freddo dall’odore affumicato che gli porgiamo. Ma anche chi viaggia in macchina e arriva al tempio senza affanno è contento di vedere la nostra bancarella. C’è chi non smette di ringraziare e chi si ferma a scambiare quattro chiacchere con noi, incuriosito dal nostro gruppo internazionale. Gli ohenro sono di tutte le età e vengono da tutte le parti del Giappone. Alcuni fanno il percorso per la prima volta, mentre per qualcuno è la quinta. C’è chi lo fa in gruppo e anche chi ha lasciato la famiglia a casa e cammina da solo. Incontriamo anche qualche pellegrino straniero. I vecchi del comitato ossettai non servono le bevande insieme a noi, se ne stanno in disparte sulla panchina. Ci osservano divertiti, chiaccherano e ridacchiano.
I giorni volano in fretta, tra il raccolto e le visite ad alcuni templi. La sera non si esce. Nel paese non c’è niente da fare e siamo troppo distanti da tutto per poter andare altrove. Ma noi non ci annoiamo. Passiamo le serate a cucinare tutti insieme – i giapponesi ci insegnano a preparare gli spaghetti udon e le palline di riso o-nigiri – e poi a mangiare. E anche quando la cena è finita rimaniamo a lungo a tavola a raccontarci qualche fatto curioso dei nostri paesi.
E così il raccolto è finito. Gli alberi di sudachi sono spogli e le casse sono stracolme di frutti. La famiglia Ide prepara la grigliata di addio. Il nostro ospite piazza un tavolo pieghevole di fronte casa e monta la griglia. Sua moglie porta una specie di sedano gigante alto almeno un metro e si mette a pulirlo e a grattuggiarlo per farne un’insalata. Noi volontari l’aiutiamo a tagliare la carne, le patate dolci, le cipolle, le melanzane e le altre verdure che saranno messe sulla griglia. Le leccornie sono in tavola – non mancano anche svariate casse di birra Asahi – e la festa ha inizio. Ide-San si è completamente sciolto e porta un quaderno in cui i pellegrini che hanno sostato nella scuola hanno scritto i loro ringraziamenti. Molte dediche sono in inglese o in francese, qualcuna anche in italiano. Ci chiede di tradurgliele. Troviamo la storia di una coppia che sta viaggiando in Giappone da quattro mesi per conoscere il paese. Un’altra comitiva, che è passata da qui nel 2018, sta facendo il giro del mondo. Gli occhi di Ide Tatsumi brillano di orgoglio mentre ascolta ed annuisce. Finito di mangiare e di bere, è l’ora dei ringraziamenti. Il nostro ospite fa un discorso e poi esplode in un ripetuto inchino. È contento di come è andato il campo e non smette più di ringraziarci. Poi chiede a tutti i partecipanti di prender parola e di firmare un apposito foglio per le dediche con una copertina in pelle, che lo fa somigliare ad una tesi di laurea. La festa si chiude con fuochi d’artificio sobri ed eleganti con cui tutti si divertono molto. Una delle volontarie giapponesi, Hiroko, che ha settantuno anni, dice che le sembra di essere tornata bambina.
L’indomani ci svegliamo presto, ma non c’è la solita luce mattutina. Il sole è coperto dalle nuvole e presto comincia a piovigginare. È arrivato l’autunno anche a Shikoku. Ide San ci accompagna alla stazione. Ci salutiamo. Prendo la valigia con dentro un po’ di sudachi e salgo sul bus che mi porterà in città.