Pubblichiamo la testimonianza di Sara Moreno, volontaria partita per un progetto di volontariato a lungo termine in Tanzania lo scorso anno.
Ho sempre avuto uno strano rapporto con la parola “femminismo”. All’inizio, quand’ero bambina e l’ho sentita per la prima volta, ne sono stata molto attratta; poi, crescendo, ho cambiato atteggiamento, maltrattando e rinnegando quella stessa parola. Non capivo fino in fondo che cosa volesse dire.
Ho iniziato a studiare per conto mio, ho fatto delle ricerche, e cercavo di comparare i movimenti femministi che trovavo nei libri con le donne contemporanee, non riuscendo però a trovare il nesso. Quelle che riconoscevo come femministe mi sembravano un gruppo chiuso, escludente, che preferiva autoproclamarsi femminista invece che cercare il confronto con gli uomini che cercavano di capire. Ho attraversato questa mia fase di crescita cercando di dare un senso che sentissi proprio al termine femminismo, giungendo infine allo slogan che sentivo mio a quel tempo: “non sono femminista, semplicemente credo nell’uguaglianza dei diritti”. Ebbene, poi mi sono resa conto che in questa definizione sta quello per cui il femminismo lotta.
Dopo anni di letture, studi e discussioni, ho finalmente capito di essere una femminista e di non avere paura di dirlo.
La parte difficile è venuta dopo. Che cos’è per me il femminismo? Significa insegnare ai propri figli che uomini e donne sono uguali, renderci conto che ognuno di noi cresce in un ambiente pieno di stereotipi di genere ai quali siamo costantemente esposti. Significa sapere che quando una donna cerca di lottare per conquistarsi una certa posizione, dovrà faticare di più rispetto ad un uomo. Significa avere la consapevolezza che una donna che si reca a lavoro truccata ha più possibilità di essere promossa rispetto a una che non lo fa. Significa sapere che una donna non si sente sicura a camminare da sola di notte.
Quello che invece non sapevo è che sono poche le donne a Zanzibar che lavorano. Principalmente restano a casa, partoriscono, si prendono cura dei bambini e preparano il cibo. Non sapevo che un uomo che si occupa di cucinare in Tanzania viene visto come debole, anche se nutrirsi dovrebbe essere un bisogno istintivo, naturale.. non conoscevo un’altra cosa: che ci sono donne a Zanzibar che si impegnano attivamente per cambiare il loro mondo.
Quello che so ora, dopo aver vissuto con loro per un po’ di tempo, è che tutte loro sono persone assolutamente incredibili.
Lavorare per una donna, a Zanzibar come in qualsiasi parte del mondo, è estremamente importante perché permette di guadagnare soldi propri, e di rendere indipendente la propria vita. Indipendenza economica significa libertà, libertà di comprare ciò che vogliamo, ciò che ci piace, ciò di cui abbiamo bisogno, senza aspettare che qualcuno ce lo conceda… questo è un aspetto che non avevo mai considerato.
Viaggiare mi è sempre piaciuto e così, da quando avevo 16 anni, ho iniziato a lavorare durante i fine settimana. Ricordo ancora quel viaggio a Parigi, me lo ero pagata da sola, con i miei soldi: quella sensazione mi faceva sentire forte, mi faceva sentire libera. Ma cosa sarebbe successo se fossi nata in un paese in cui questa possibilità mi era preclusa? Avrei combattuto anche io per cambiare la mia situazione? Le donne a Zanzibar lo stanno facendo.
Avere un’occupazione comporta dei cambiamenti significativi nella vita quotidiana e nella struttura sociale. Se sia l’uomo che la donna sono impegnati durante il giorno, le famiglie si evolveranno in un modo diverso, anche la prospettiva sulla pianificazione familiare cambierà completamente e una donna avrà la possibilità di conoscere ed esplorare tutti i ruoli che può svolgere nella società.
“Empowerment”, questa è una parola che ho sentito molto spesso durante il mio soggiorno a Zanzibar, lo stesso progetto a cui mi sono iscritta si chiamava “women empowerment”.
Gli zanzibariani stanno cercando di far crescere la loro società attraverso diversi progetti, e le donne sono parte della integrante della soluzione. Le donne che si uniscono alla forza lavoro infatti potenziano in modo significativo il contributo alla crescita economica e sociale del paese.
C’è poi l’iniziativa di un gruppo, di cinque donne che hanno deciso di rischiare e spingersi ancora oltre, dando vita al collettivo di cucito “le mie mamme”. Dopo aver lavorato nel settore del cucito per alcuni anni, hanno infatti deciso di avviare un’attività in proprio nel 2016. Hanno trovato un edificio adatto per allestire un atelier e un negozio per la vendita e hanno iniziato a costituire il loro gruppo a poco a poco, contribuendo con i propri risparmi. Il mio contributo è modesto, le aiuto nell’accoglienza dei clienti spiegando un po’ del progetto a chiunque sia interessato all’ascolto, condivido il mio punto di vista sul merchandising e sull’esposizione delle merci e insieme cerchiamo di trovare nuove ispirazioni e disegni per i loro prodotti.
Sono un’assistente che lavora per un gruppo di donne impegnate nelle loro attività. Prima di unirmi a questo progetto non sapevo cosa aspettarmi, ma quello che ho capito adesso è che di sicuro non sono io quella venuta ad insegnare a queste donne ad essere femministe, sono loro che mi hanno insegnato a vedere il mondo attraverso uno sguardo differente. Il gruppo è estremamente vario: alcune di loro sono sposate, altre no, tutte tranne una sono musulmane, c’è una maestra e poi tutte studentesse eccellenti. Una di loro è single, un’altra si dice sposata con la macchina da cucire, una di loro ha quattro figli ed è incinta, ma c’è una cosa in particolare che hanno in comune: una scintilla. Se sei molto attento puoi vederla, proprio lì, in fondo ai loro occhi.
Sorridono quando trovano un modello che gli piace e che vogliono cucire, quando scoprono una nuova stampa e vogliono lavorarci immediatamente, quando un cliente entra nel negozio con una richiesta impegnativa. È curiosità, è creatività, è passione. La passione che mettono in ogni singolo movimento che fanno, le loro mani che corrono su metri e metri di tessuto sparsi per tutto il pavimento, il ronzio costante delle loro macchine da cucire, il suono ripetitivo di forbici che scendono come ghigliottine e quella risata e la gioia che diventa incontrollabile quando sono tutti nella stessa stanza… anche per questi motivi ho capito perché sono femminista.