RaccontiamoSCI: Intervista a Stefania Pizzolla (socia storica)

Guardare la storia, con il volto in avanti:  costruire la pace, la solidarietà, la giustizia sociale

 

– Ciao Stefania, ci siamo incontrate all’ultima assemblea nazionale dello SCI a Roma al Casale dell’Utopia, lo scorso novembre. Tu tra l’altro eri membro del Comitato dei Garanti.

Sì, è vero, a quest’ultima assemblea ho potuto partecipare.

 

– Grazie innanzitutto per aver accettato di essere intervistata. Ti farò alcune domande sulla tua attività nello SCI, ma prima puoi presentarti brevemente per chi ci leggerà?

Sono Stefania Pizzolla e sono nel Servizio Civile Internazionale dal 1989. 

Nella vita faccio altro… nel senso che dal 1993 lavoro in un ufficio pubblico, attualmente sono al Ministero del Lavoro. Ho scelto di non fare del Servizio Civile Internazionale una professione e combino, appunto, la mia vita di attivismo e volontariato con un lavoro in altro ambito. 

Ho due figli e un compagno. Due figli “effetto SCI” nel senso che il mio compagno ed io ci siamo incontrati nello SCI, come molti altri. Abbiamo fatto un incontro per l’ottantesimo dello SCI a Milano e siamo andati tutti con i figli nati da coppie che si sono incontrate grazie allo SCI e sono tanti, a Roma, in Trentino, in Lombardia e in Sardegna. Nessuno dei nostri figli, finora, ha preso in mano le redini dell’associazione, forse è inevitabile… ma noi ci abbiamo provato.

 

Dall’India alla mostra itinerante

 

– E come sei arrivata allo SCI?

Avevo deciso di fare un anno sabbatico subito dopo l’università e andare in Centro America – Sud America, ma non volevo andare da sola e senza meta o obiettivo. Un giorno all’università ho visto un Poster fatto a mano in cui c’era scritto qualcosa tipo “Se volete fare esperienze di volontariato in Asia Africa America Latina contattateci”. Ed era un poster fatto da Paolo Maddonni che era stato in Marocco e aveva iniziato con altri volontari una attività di formazione per chi voleva andare a fare campi di volontariato nel sud del mondo. Sono approdata allo SCI con l’idea di partire poi per il SudAmerica per un anno. Alla fine sono andata per due mesi in India, sono tornata e sono rimasta allo SCI per tutta la mia vita. Per inciso, non sono mai andata in sud America se non per una vacanza quattro anni fa in Argentina. Alla fine il famoso anno sabbatico è stato l’elemento scatenante che mi ha avvicinato ad un’esperienza che io considero tra le fondamentali della mia vita, e che ha cambiato proprio il mio approccio al mondo.

Quel campo in India era un campo Nord-Sud classico. All’epoca i campi al Sud duravano dalle 6 alle 8 settimane e in India includevano tre giorni ulteriori di formazione all’arrivo, il lavoro in due progetti e poi la valutazione finale. Erano esperienze molto più lunghe di ora e molto intense che ha me ha cambiato davvero il punto di vista sul mondo e soprattutto sul modo di guardarlo non dall’alto di chi sa le cose, ma con un approccio paritario di scambio.

 

– Sicuramente ti è piaciuto visto che sei rimasta nello SCI da allora…

Sì sì! Anche se ricordo perfettamente il mio arrivo all’aeroporto di Nuova Delhi alle 4 di mattina. Avevo fatto la formazione, sapevo cosa dovevo fare, dove cambiare i soldi, come prendere un pre-paid taxi, tutto. Ma quando mi sono affacciata fuori dall’aeroporto, era buio, il mondo era così diverso, ho avuto una paura immensa. Avrei preso il prima aereo per rientrare. Invece sono rientrata in aeroporto, ho ripassato le tre o quattro frasi fondamentali di hindi, ho aspettato che albeggiasse e mi sono avventurata nei due mesi “senza ritorno”. Quando sono rientrata in Italia mi sono laureata. Lo SCI stava organizzando il suo primo “vero” ufficio SCI. Fino allora non c’era una segreteria nazionale, c’erano solo una o due persone che lavoravano prettamente a titolo volontario. L’associazione stava crescendo molto, siamo nel ’89-‘90 e c’è stato un investimento associativo per lanciare l’associazione. Eravamo un gruppetto di persone tra cui Paolo Maddoni, Davide Di Pietro, Giovanna Gagliardo, Renzo Sabatini che è stato segretario nazionale per tanto tempo e poi c’era Giulio Marcon che ha continuato un percorso importante anche fuori dallo SCI, c’erano Sergio e Marina. 

Ognuno di noi in ufficio aveva un settore di lavoro e poi c’era il consiglio nazionale composto da attivisti da tutta Italia (Lombardia, Sardegna, Puglia, Veneto, Lazio, Campania). Era un ufficio nuovo con persone che avevano tanta voglia di fare, tante idee, ma poca esperienza lavorativa alle spalle però devo dire che siamo riusciti a mettere in piedi qualcosa che, pur cambiando, è durato nel tempo. (7.25).

Tutti quanti, a parte qualche rara eccezione, siamo ancora molto vicini all’associazione. Anche se alcuni magari, dopo un po’ di tempo non hanno più avuto un ruolo attivo, tutti sono rimasti molto legati, sia tra di noi, sia allo SCI, se c’è bisogno di una mano sono tutte persone che ci sono per lo SCI.

 

“Palestina _visita di studio”

 

“Castel Volturno 1999”

 

– Per quanto tempo sei rimasta in Segreteria Nazionale?

Sono rimasta per un anno ed è stato uno degli step che mi ha fatto capire che preferivo partecipare come volontaria, attivista e non all’interno di un ufficio. Era il ’90-91 ed è stato un anno intensissimo: la prima guerra del Golfo, tantissime iniziative con il mondo pacifista, i campi di lavoro che aumentavano anche con caratterizzazioni sociali e politiche molto forti (pacifismo, antirazzismo, solidarietà internazionale erano un modo forte di fare politica in quegli anni). E’ stata perciò un’esperienza entusiasmante che poi ho continuato come attivista SCI sia all’interno del gruppo Lazio che allora esisteva, sia all’interno del Consiglio Nazionale, che in Comitati Internazionali. 

 

– Vuoi raccontarci qualche cosa di queste esperienze successive?

La dimensione internazionale nel gruppo che allora si chiamava SEED (Solidarity exchange and education for development) e si occupava degli scambi Nord Sud. Avendo iniziato con l’India era il mio naturale approdo, avevo poi fatto un’esperienza in Kenya in un progetto di scambio molto interessante che mi aveva portata negli slums di Nairobi. Lavorare insieme in un comitato esecutivo come era il gruppo SEED, con persone che venivano da diversi paesi, India, Bangladesh, Sri Lanka e paesi europei, è entusiasmante e bello, ma ha tante difficoltà. Non è solo un problema di lingua, ma è un problema di cultura, quale significato hanno le cose e le parole, di capire che cosa c’è dietro alcuni meccanismi. Poi, come dico di solito, succede che dici AB, arriva a BC e ti ritorna CD, c’è una triangolazione arricchente, ma a volte difficile da gestire. Allora non eravamo ancora all’epoca della globalizzazione tecnologica. Le telefonate internazionali costavano tantissimo, non avevamo neanche un computer in ufficio, arrivarono ad un certo punto una macchina da scrivere elettronica ed un fax e ci sembrava di essere supertecnologici……

Le occasioni di scambio e confronto erano limitate a quando ci si poteva vedere. Il tema del linguaggio, della comunicazione, è una questione essenziale. Comprendersi non è semplice, pur condividendo valori molto simili e un senso di appartenenza molto forte allo SCI, c’era un tema di linguaggio e di senso, sia tra europei che con i rappresentanti delle branche asiatiche (e a volte era più facile capirsi con gli asiatici che con i nord europei, per esempio). E questa è stata una lezione fondamentale, anche perché banalizzare problemi come questo non aiuta e non fa bene per avere scambi significativi; c’è il rischio di fermarsi ad un livello superficiale di comprensione, che poi in realtà comprensione non è.

Tutto questo si è svolto negli anni ’90. In quel periodo è nato anche il gruppo Abya Yala che si occupava dell’America Latina. C’è stato un grande fervore nell’associazione e anche a livello internazionale eravamo molto all’avanguardia rispetto alle altre branche. Sempre più politicizzati rispetto agli altri, cosa che continua tutt’ora. Abbiamo una visione più complessiva e per questo credo che le posizioni dello SCI Italia, a volte anche nella non condivisione, continuano ad essere viste con grande rispetto, perché abbiamo portato avanti delle idee chiare, ampie, politiche, nel senso più puro.

 

Genova, 2001

 

– Davvero molto interessanti queste esperienze di dialogo e collaborazione internazionali. Immagino che anche a livello nazionale l’impegno fosse forte.

C’era tanto attivismo a livello nazionale. Avevamo organizzato, ad esempio, il gruppo formazione. Oggi sembra scontato che ci sia la formazione all’interno dell’associazione. Ma elaborare delle esperienze formative di senso e fare delle scelte che poi, pur modificandosi, sono rimaste valide nella sostanza, non era per niente scontato. La formazione continua ad essere una “conditio” per chi vuole fare esperienze internazionali nel sud del mondo con lo SCI. Questo non avviene in tutte le associazioni che propongono esperienze di volontariato nel –Sud del mondo. Per noi invece era ed è un elemento qualificante e ci abbiamo prestato tantissima attenzione. In quegli anni l’abbiamo proprio costruita. Ci siamo interrogati: che cosa vuol dire fare formazione per chi va fare campi in Europa, per chi va a fare campi nel Nord- Sud? Quali sono i messaggi da lanciare e come fare perché la formazione fosse anche un momento per la persona di misurarsi e capire se l’esperienza SCI fosse quella giusta, per auto-selezionarsi? Ad una persona che si candida per i campi di volontariato poche volte ci è capitato di dire “tu non parti”, ma a questo le persone sono arrivate attraverso la formazione. Siamo riusciti a far passare il messaggio di cosa sia l’esperienza e qual sia anche l’aspettativa dello SCI e quella delle associazioni partner: questo è fondamentale per far sì che le persone che non si sentono convinte dall’esperienza o che sentono che non è l’esperienza giusta per loro, si rivolgono ad esperienze più adatte a loro o aspettino il momento giusto. E poi, ancora: come fare la formazione per i coordinatori, che cosa deve saper fare un coordinatore di campo, quali sono le conoscenze minime nell’ambito delle dinamiche di gruppo ad esempio.

Abbiamo costruito tutto in quegli anni, ed è stato molto entusiasmante.

Primi lavori Casale Città dell’Utopia

Poi a livello nazionale ci siamo resi conto che sarebbe stato importante avere un luogo dello SCI, perché ogni volta che si dovevano fare formazioni a Roma, o assemblee, era sempre più difficile trovare posti adeguati. Volevamo un posto poi, dove tradurre in pratica, meglio in pratiche, i principi SCI. A Roma ci siamo messi di punta alla ricerca e dopo due anni di lavoro, nel 2003-2004, siamo riusciti a farci affidare il Casale de “La Città dell’Utopia”. Qui non posso non ricordare l’enorme lavoro fatto da Caterina Amicucci e Carlo Dojmi, senza il loro impegno, bravura e, come si dice a Roma, “tigna”, oggi “La Città dell’Utopia” sarebbe ancora un casale abbandonato in zona San Paolo, o, quanto meno, non ci sarebbe lo SCI a farlo vivere. Siamo a metà degli anni Novanta. Ed è diventato oltre ad un progetto molto importante per l’associazione, il luogo nel quale si dà sostanza, tutto l’anno, a quelli che sono i principi dell’associazione: quindi il progetto comunitario, lo spazio aperto al territorio, l’elemento internazionale, il luogo dove si costruisce la pace, un  luogo di elaborazione di pensiero, come dice il sottotitolo del progetto il “laboratorio sociale e culturale che affronta i principali temi legati ad un nuovo modello di sviluppo locale e globale che sia equilibrato, sostenibile, giusto”. Non è stato facile trovare quello spazio. 

In quegli anni abbiamo anche cambiato sede. L’ufficio SCI fino al ’93 (circa) era in via dei Laterani e poi ci siamo spostati nella sede attuale in via Cruto, in uno spazio sopra la biblioteca comunale, in cui hanno sede varie associazioni, ciascuna con una sua stanza e una grande sala riunione condivisa, con un tavolo enorme. Lì potevamo fare le riunioni e i Consigli nazionali quando erano a Roma. E poi quando facevamo le spedizioni delle lettere – allora si spedivano le lettere – o della rivista “Centofiori”, ci si metteva lì con centinaia di buste, di francobolli, di copie, si imbustava, si incollavano i francobolli, si chiudevano le buste e si portava tutto in posta per la spedizione. Ricordo quel grande tavolo riempito all’inverosimile di pile di carte.

E poi, come costante, abbiamo vissuto molti avvenimenti internazionali – il crollo del muro di Berlino, la guerra del Kosovo ecc. –  e li abbiamo vissuti anche dal punto di vista delle associazioni locali, che cercavano di far fronte alla transizione, di mantenere viva la società civile, di dare risposte democratiche anche in contesti non democratici.

 

– Che cosa ti ha spinto a restare nello SCI?

Io sono rimasta nello SCI perché nonostante cambi – come i figli che non sono mai quello che ti aspetti che diventino (per fortuna) – a me lo SCI continua a dare tanto e a mio avviso continua ad essere una realtà della quale non si può fare a meno, perciò quando posso e come posso provo a dare il mio contributo. Non è semplice perché il mondo cambia ed è difficile riuscire a rispondere alle aspettative associative o personali in ogni momento. Ho visto tanti alti e bassi associativi però è un’associazione che dopo 100 anni continua a esistere. E in Italia c’è da oltre 70 anni, dal dopoguerra, tranne un breve periodo di sospensione. Molte associazioni stanno celebrando i 100 anni dei campi di volontariato, associazioni nate da pochi decenni. Io sono grata che ci siano tante realtà che si sentono chiamate a celebrare questa tappa importante nel campo della solidarietà internazionale e della pace. Ma in realtà si tratta dei 100 anni del Servizio Civile Internazionale. E’ dai tempi di Pierre Ceresole che con le branche ed i partner SCI portiamo avanti questa esperienza di associazione internazionale (non siamo un network), con la forza, l’entusiasmo ed i problemi che ti dicevo prima: ragionare, confrontarsi, fare a livello internazionale, globale, con la difficoltà di incontrarsi … è questo che lo SCI. Da 100 anni. 

 

– Se tu dovessi descrivere in breve lo SCI quale aspetto saliente sceglieresti?

Per me lo SCI è la possibilità di uscire fuori, guardare il mondo, confrontarsi realmente con il fare, il costruire pace, dialogo, solidarietà e giustizia sociale. Dirlo è semplice, praticarlo nel piccolo è un po’ complicato, praticarlo a livello internazionale è complicatissimo. Soprattutto quando non vuoi essere equidistante, ma ti vuoi sporcare le mani e prendere parte.

Quindi è questo uscire fuori, ma è anche un’altra cosa: fare. Per me è sempre stato importante fare e con lo SCI si fa.

 

– E la tua esperienza personale più significativa nello SCI?

Due cose. Certamente il campo in India, il primo, è stata l’esperienza che mi ha cambiato e che mi ha legato a questo mondo, sicuramente l’esperienza più forte. L’altra è la solidarietà e la vicinanza delle persone dell’associazione in un momento mio personale di grande difficoltà.

 

– Grazie Stefania! Un’ ultima domanda, quali proposte o suggerimenti rivolgeresti allo SCI?

Darei il suggerimento di guardare dietro, la storia, con il volto in avanti. Capire cioè che tante difficoltà, gli alti e bassi si superano perché la solidità di quello che si fa è forte ed è anche indipendente dalle persone. Abbiamo la fortuna di guardare ad una storia associativa ricca, di poterla valorizzare e attualizzare. Penso che lo SCI l’abbia sempre fatto e stia continuando a farlo. Penso anche che il momento di grande difficoltà che abbiamo vissuto come associazione, ma anche a livello globale con il Covid, ci ha fatto un grande regalo: il regalo sei tu che mi stai facendo questa intervista, e le tante persone che si sono riattivate all’interno dell’associazione con mezzi nuovi e modi nuovi. È una fenice lo SCI, rinasce sempre, magari con colori diversi, ma mantiene la sua identità.

 

– Prima di lasciarci, vorresti raccontarci qualcos’altro del tuo SCI?

Ci stavo pensando prima, mi sono venute in mente tante cose, tante persone.

Potrei dirti di quando abbiamo fatto l’incontro con le donne del Mediterraneo e questo succedeva alla fine anni ’90. I racconti di quelle donne sono molto simili ai racconti di oggi delle donne del Kurdistan, ancora così forti, determinate, che hanno così tanto da raccontarci e da commuoverci. Dovresti intervistare Beatrice de Blasi per farti raccontare come ha costruito quell’incontro.

Mi viene in mente la Palestina, dove sono stata poco prima della seconda Intifada, e dove lavoriamo ancora oggi: c’era una generazione di giovani che si stava riscattando e raccontava che cosa aveva voluto dire per le persone poco più grandi di loro dover/voler perdere l’infanzia e l’adolescenza nell’Intifada, in una lotta contro l’oppressione e l’invasione dei Territori palestinesi da parte dello Stato di Israele. Le donne palestinesi andavano senza velo, era una società molto aperta, ma poi nel settembre del 2000, c’è stata la famigerata passeggiata di Ariel Sharon, allora capo dell’opposizione nel Parlamento israeliano, sulla spianata delle moschee e la ripresa di un conflitto ormai infinito (ancora in questi giorni ci sono state manifestazioni di protesta contro la prevista annessione di territori della Cisgiordania da parte dello Stato di Israele) e che provoca tanto dolore, rabbia e incredulità. Quando vai in Palestina ti rendi conto di cosa succede realmente, delle condizioni di vita del popolo palestinesi e ti rendi conto che  non puoi essere equidistante.

Questo per me è stato lo SCI: vedere, toccare e capire che non sempre si può essere al di sopra delle parti, almeno non per come sono io e come io vedo lo SCI.

Poi vorrei raccontarti dei tanti volti che ho incontrato che fanno ancora parte della mia vita e che mi capita rincontrare dopo tanti anni. Anche il mio compagno, Marco Buraschi. Lui è stato presidente dello SCI negli anni ’90 e anche suo fratello Aldo. I fratelli Buraschi di Milano, che hanno fatto davvero tantissimo per lo SCI. Ad esempio, Aldo, che era stato in India, Paolo Maddonni che era stato in Maghreb e Ariella che era stata in Senegal – ora è in giro per il mondo con la Fao credo – ecco loro tre hanno elaborato la formazione Nord-Sud.

E poi vorrei aggiungere un piccolo ricordo de “La Città dell’Utopia” e dedicarlo a Tanny, una donna meravigliosa che ha accompagnato con la sua poesia e il suo teatro la vita del Casale e di tanti/e di noi. 

Grazie Stefania per aver condiviso con noi la tua esperienza e la tua lettura del Servizio Civile Internazionale! 

Grazie anche per averci parlato di tanti altri volontari che sono stati attivi costruttori dell’associazione e dei suoi valori, anzi cercheremo di intervistare anche chi finora non abbiamo contattato.

Arrivederci nello SCI, Stefania!

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