Raccogliere olive, accompagnare i contadini, ma soprattutto “far sentire ai palestinesi che non sono soli”. Il racconto dei volontari del progetto ICP, appena tornati da un mese di attività nei Territori Occupati.
di Cecilia Dalla Negra, OsservatorioIraq
Raccogliere olive, accompagnare la popolazione locale sulle proprie terre, ma soprattutto “far sentire ai palestinesi che non sono soli”: è stato questo il lavoro dei ragazzi che hanno preso parte al progetto “Interventi Civili di Pace (ICP)” in Palestina tra settembre e ottobre scorso.
Un progetto giunto ormai al suo quinto anno, che si ripete grazie all’impegno e alla volontà di un gruppo di associazioni italiane e palestinesi (PSCC, Servizio Civile Internazionale, Un ponte per…, Assopace Palestina, IPRI-Rete CCP e Centro Studi Sereno Regis).
Un mese nei Territori occupati, tra i villaggi dove i Comitati popolari di resistenza nonviolenta resistono e manifestano ogni venerdì; tra le comunità, vicino alle persone, per accompagnare i contadini nella raccolta delle olive, tentando di mitigare con la presenza internazionale la violenza indiscriminata di militari israeliani e coloni durante il lavoro agricolo.
“Soprattutto per noi era importante che non si sentissero soli”, raccontano i ragazzi, che durante il loro soggiorno in Palestina si sono ribattezzati “Zeituna Resistente”, l’oliva che resiste.
Appena rientrati in Italia sono un po’ spaesati, come capita al ritorno da un viaggio che è stato soprattutto esperienza diretta, conoscenza, relazioni umane.
“Non conta la quantità di olive che hai raccolto, ma i rapporti personali che si sono intrecciati, il legame con le famiglie e con gli attivisti, la possibilità di raccontare e farsi raccontare, far sentire la propria solidarietà mettendo in campo corpi ed energie”, spiegano i ragazzi.
E la possibilità, anche, di fare “da cassa di risonanza” per una realtà che scompare tra le pieghe di una cronaca parziale.
“Attraverso il blog che abbiamo aggiornato giorno dopo giorno”, spiegano, “abbiamo avuto la possibilità di raccontare, anche in modo molto semplice e diretto, una realtà che vivevamo ogni giorno. Far conoscere a qualcuno che magari non è esperto la realtà palestinese, quello che accade ogni giorno”.
Un lavoro quotidiano coordinato dal Popular Struggle Coordination Committee (PSCC), parte di questo progetto, gruppo che dal 2009 orchestra il lavoro e la resistenza dei Comitati popolari nei diversi villaggi, e supporta i volontari quando arrivano in Palestina.
Un impegno che a volte può sembrare solo una goccia nell’oceano: “I problemi sono talmente tanti, e talmente grandi, che a volte il senso di impotenza ti coglie. Ma i legami che abbiamo stretto e la continuità che si sta dando a questo progetto ci permettono comunque di tenere un riflettore sempre accesso sulla Palestina, e impedire un piano israeliano fin troppo chiaro: normalizzare la situazione in un paese che normale non è, perché si possa continuare a fare quello che si sta facendo”.
Al Massara, Kufr Qaddum, Ramallah, Nablus: hanno attraversato i Territori mentre lì si ripercuotevano le conseguenze di quanto da poco accaduto a Gaza, con l’ultima offensiva israeliana dell’estate scorsa; mentre gli shabab manifestavano, come accade in queste ore, e a reprimerli arrivava anche la polizia palestinese.
Un fatto “sconcertante” secondo i ragazzi, che parlano di una “silent intifada” che sembra prendere piede per le strade della Palestina occupata.
“Eppure sembra che dietro ci sia una precisa strategia israeliana: quella di alzare e abbassare continuamente il livello della tensione e la militarizzazione nei Territori, un tira e molla fatto ad arte per sfiancare la popolazione”. Nelle ore in cui veniva bombardata Gaza ancora una volta i volontari non erano in Palestina, ma in autunno se ne parlava ancora.
“Tra i palestinesi c’è sempre una solidarietà altissima, purtroppo però si tratta di due realtà completamente separate: una scelta funzionale agli interessi di Israele”, commentano. “E la divisione di Hamas e Fatah, e dei quadri politici in generale, certo non aiuta. C’è uno scollamento sempre più forte con la popolazione, una lotta interna tra volontà popolare e autorità politica”.
È quella volontà popolare che i Comitati di resistenza nonviolenta cercano di intercettare. E di veicolare, a volte purtroppo con scarsi risultati.
Forse anche perché “la popolazione è sfinita, il ricordo della seconda Intifada è ancora molto forte, e la gente in fondo vorrebbe solo una vita normale”, raccontano. “Se si considera poi che l’economia palestinese è ormai completamente dipendente da quella israeliana, e che tante famiglie sopravvivono grazie al lavoro dentro le colonie, la situazione si complica ulteriormente”.
Nonostante le difficoltà, però, i volontari sono convinti che la loro esperienza, per quanto limitata, abbia avuto un significato importante.
“Per tutto quello che abbiamo imparato, e per quello che potremo raccontare. Se riusciamo ad avvicinare anche solo qualche amico o parente alla questione, sarà già un buon risultato”.
Restano convinti, ora più che mai, che la Palestina sia “un paradigma di molte altre lotte nel mondo in cui in una situazione di conflitto i rapporti di forza sono asimmetrici. Basti pensare al fenomeno globale del land grabbing: ci sono migliaia di contadini in tutto il mondo che lottano per difendere la propria terra, e la Palestina in qualche modo li unisce”.
La speranza che dai fatti di sangue degli ultimi giorni si possa uscire, e costruire qualcosa di positivo per il futuro non li abbandona.
Magari un maggiore sostegno ai movimenti di resistenza. Perché, come ricordano, “la gente è stanca di lottare. Ma anche di vivere sotto occupazione militare”.
Foto dal blog “Interventi Civili di Pace (ICP)”