Il racconto della volontaria Francesca Fulgoni, che nell’ottobre 2016 ha partecipato a un campo di volontariato SCI nel distretto di Sur e nel campo profughi di Fidanlik, Diyarbakir. Il progetto prevedeva giochi di strada e laboratori con i bambini.
Bambini del “Sur” e bambini del “Sole”
Sono partita per il campo di volontariato a Diyarbakir, senza quasi conoscerne la posizione. Sì Turchia, ma dove? Sì Kurdistan, ma dove? Diyarbakir, “Amed” in curdo, città centrale della Regione Curda, si trova a sud-est della Turchia, vicino al confine siriano ed iracheno. Da secoli terra di conquiste, è bagnata dal fiume Tigri. Avevo sentito racconti di amici venuti più di una volta a fare campi di volontariato. Avevo visto un breve video-collegamento, durante la formazione dello SCI, dove i volontari e il coordinatore del campo curdo parlavano della situazione, dell’accoglienza, della condivisione, dei diritti umani.
Avevo sentito parlare dei curdi, ma non avevo mai approfondito l’argomento. Tra le mille cose da fare, non ci può stare tutto tutto. Ma il tutto ora mi incuriosiva: chi sono i curdi? Come vivono?
Così ho deciso, all’ultimo momento, di partire per il campo. E infatti sono stata l’ultima dei volontari ad arrivare, ma che accoglienza!
All’uscita dell’aeroporto di Diyarbakir, nuovo di pacca, mi sono ritrovata con due ragazzi curdi, con poche parole di inglese e un volontario italiano che mi ha subissato di informazioni per tutto il tragitto dall’aeroporto alla guest-house, mentre io guardavo fuori dal finestrino, cercando di capire dove fossi atterrata. Lungo la strada abbiamo incontrato dei posti di blocco. Ho pensato che lo stato di emergenza post tentato golpe del 15 luglio si facesse sentire. In realtà, non è solo quello. In questo angolo di Turchia le tensioni sociali sono sempre state alte. Una guerra civile si è svolta nel centro di Diyarbakir tra dicembre e marzo del 2015, è durata per più di 100 giorni.
Arrivata nella guest house, c’erano tutti gli altri volontari ad aspettarmi per la cena. Tutti molto più informati di me sulla situazione, sulle condizioni. Io ascoltavo e mi guardavo intorno per capire dov’ero e con chi avrei trascorso i prossimi dieci giorni, 24 ore su 24. È un campo sperimentale, i volontari erano solo italiani. Sei in totale, compresa me. Un gruppo bello variegato per età e per esperienze.
Cosa si doveva fare al campo? Un lavoro di animazione con i bambini: per metà del campo saremmo stati con i bambini del “Sur” e per l’altra metà con i bambini del “Sole”. Chi sono questi bimbi?
I bambini del “Sur”
I bambini sembrano sempre tutti uguali, nella loro innocenza e voglia di vivere. I bambini del “Sur” abitano nel centro storico di Diyarbakir, ricco di moschee, chiese armene, mercati, caravanserragli, negozi, caffè e abitazioni storiche, ma anche molto popolari. Il Sur è stato il centro delle lotte di inizio anno. Ora circa un quarto della città vecchia è chiusa, disabitata, circondata da barricate e sorvegliata. Gli abitati sono stati “sgomberati” e non è ancora chiaro che cosa ne sarà di quella parte della città. Fa un certo effetto camminare lungo la via del centro della città con gente che si muove come formiche, di qua e di là, e vedere tanto controllo, filo spinato e zone completamente chiuse. Pensare che lì ci abitavano famiglie intere, mentre ora non possono più vivere dove sono nati. Lo chiamano lo stato di emergenza. Forse io non ne ho mai vissuto uno e non so bene di che cosa parlo, ma mi è sembrato tutto molto strano, un po’ surreale. Mi è sembrato tutto molto ingiusto.
Gli insegnati e poi i bambini ci hanno accolto con sorrisi e voglia di condividere, di stare insieme. Abbiamo giocato con loro a “un due tre stella”, abbiamo giocato con loro con la polaroid scattando foto alle cose a loro più care. In molti hanno scelto la loro maestra. Abbiamo dipinto il muro del giardino del centro con un murales collettivo, ideato dai più artistici del gruppo, che rappresentava tanta gente, un arcobaleno, degli alberi, un sole e la scritta “aşîtî”, che in curdo vuol dire “pace”. Sulle magliette della gente del murales erano dipinte le lettere dell’alfabeto curdo: î, ê, û , Q, X, W. Lettere che per anni sono state proibite, come la lingua curda.
Spero sia piaciuto a loro come è piaciuto a me. Spero che in mezzo alla guerra che hanno vissuto, i sorrisi di gente lontana, ma in fondo uguale a loro, con la semplice voglia di stare insieme e condividere il tempo, gli rimanga di ricordo. A me rimarrà di sicuro, insieme agli anelli donati come regalo dalle bimbe.
Durante il nostro campo il sindaco e cosindaco di Diyarbakir sono stati arrestati. Se lo aspettavano. Dopo il tentato golpe del 15 di luglio, sono state arrestate molte persone in Turchia: giornalisti, professori, esponenti politici. Abbiamo visto la città “scossa”, arrabbiata e turbata. Mentre camminavamo per la città, probabilmente tra i pochi stranieri presenti, le polizia ci ha fermato, ripreso e fotografato, oltre ad aver eseguito il consueto controllo dei passaporti. Ci hanno chiesto se eravamo giornalisti. Ci hanno lasciati andare, noi eravamo dei semplici volontari. Rimaniamo però testimoni, nostro malgrado, di quello che hanno visto i nostri occhi.
I bambini del “Sole”
I bambini yazidi del campo profughi di Fidanlik, vicino a Diyarbakir, vengono dal Sinjar, Kurdistan Iracheno. Sono stati afflitti dall’ennesimo genocidio condotto dalle forze dell’ISIS il 4 agosto del 2014. Di genocidi nei loro confronti ne hanno contati ben 74, negli anni. Sono riusciti a scappare dalle loro terre durante l’estate, sotto 45° di caldo. Li chiamano i bambini del “Sole”, in riferimento a una delle divinità yazide.
Ci hanno detto che sono quattrocento i bambini del campo. Molti di loro vogliono imparare l’inglese, guardano al futuro. Alcuni di loro, conversando con me in inglese, mi raccontano che hanno iniziato a impararlo da soli, non c’è scuola per loro. Jamal, un ragazzo del campo, ha iniziato a fare lezioni di inglese, in maniera informale ma molto partecipata. Siamo andati ad animare un po’ le sue lezioni. Abbiamo creato, disegnando una ad una le carte, un piccolo memory con vocaboli in inglese. Non avevamo considerato che i tavoli della scuola erano di vetro e più che giocare, dopo la lezione di vocabolario d’inglese, mi sono ritrovata a rimproverare i bimbi che si chinavano con 5mila scuse differenti sotto il tavolo, a sbirciare le carte. Erano molto belli!
Durante una pausa nel giardino retrostante, vedo in lontananza una ragazza bellissima, seduta da sola ad un tavolo di legno. Dopo pochi minuti mi si avvicina, due occhi scuri, profondi ed intensi mi guardano. Inizia a parlare lei, si presenta, mi chiede il mio nome, con un modo di fare maledettamente naturale. Lo stesso modo di fare che ho ritrovato in molti volti curdi incontrati. Mi racconta che viene da Sinjar, è venuta al campo per pochi giorni a trovare i sui genitori che vivono qui. Poi tornerà in Iraq a lavorare per una ONG che sostiene le persone rimaste là. Lei ha imparato l’inglese da sola. Lo parla stupefacentemente bene. Mi racconta che lavora con le donne catturate dall’ISIS e poi liberate. Mi racconta, mi racconta che un giorno una donna le chiede un favore, uno solo. Le chiede: “Possiamo ballare insieme?”. Durante la cattura non si poteva cantare, non si poteva ballare, non c’era musica, era tutto vietato. Voleva ballare per liberarsi, come se fosse stata morsa dalla tarantola, come se la musica e le canzoni fossero state il suo sangue, la sua vita. Voleva dimenticare e rinascere.
Al ritorno, più confusa che mai, sull’aereo verso casa, pensavo. Pensavo a come la libertà di espressione sia un diritto umano fondamentale. Pensavo che impedire a un popolo di esprimersi con la sua lingua e con le sue tradizioni sia un crimine. Qui la cultura tramandata parla di cantastorie, parla di musica, di canzoni, di danze, una cultura orale nata prima di Cristo. La religione yazida è antecendente la nascita di Gesù. È come se a un Fiorentino togliessero Dante e la cupola di Brunelleschi, ai Romani il Colosseo e i filosofi antichi e così via… È come se togliessero le radici al nostro albero.
Terra di conquiste, terra di gente che è abituata a lottare e resistere per salvaguardare la propria identità e riconoscerne il diritto a tutti gli essere umani.