L’articolo è stato scritto da Filippo Dierico, che nell’estate 2016 ha partecipato a un campo di volontariato in Islanda, con l’obettivo di ripulire i fiordi nella regione delle Westfjords dall’immondizia depositata.
“Ma non ti piacerebbe andare in Croazia con i tuoi amici? Secondo me si divertiranno un sacco e
di certo è meno complicato da organizzare!”
“Non metto in dubbio che si divertiranno, ma questa è l’occasione per realizzare uno dei sogni
della mia vita, è lì che vorrei andare e quella è l’esperienza che vorrei fare!”
Spiegare ai miei genitori quello che sarei andato a fare in Islanda non fu certo facile. Non certo per discriminare la loro generazione, ma credo che siano portati a svalutare il volontariato. Indottrinati dalla concezione del lavoro retribuito, spesso dimentichiamo l’utilità degli atti gratuiti che alcune persone scelgono di compiere. C’è chi desidera dedicare il proprio tempo libero e le proprie risorse per cercare di migliorare la società in cui vive, o chi si adopera per salvaguardare la salute del pianeta, tante piccole formiche che agiscono per mitigare gli effetti negativi delle attività umane.
Aiutare ragazzi con difficoltà di apprendimento nel percorso scolastico, tenere compagnia ad anziani che altrimenti sarebbero soli per molte ore al giorno, sostenere le persone colpite da una calamità naturale e aiutarle a ritornare alla vita quotidiana, costruire pozzi in zone desertiche, proteggere i bambini in zone di conflitto armato. Questi sono solo alcuni esempi attività di volontariato. Molto spesso non ci facciamo caso o ne siamo completamente inconsapevoli, ma i volontari ci sono e lasciano segni indelebili nel mondo e nelle persone con cui si relazionano.
Torniamo a noi. Un viaggio. Si, io adoro viaggiare. Può sembrare la solita frase fatta, parole che si dicono per farsi notare, ma io non la penso così. Sono profondamente contrario a chi afferma che
viaggiare permette di trovare se stessi. Non è una legge universale applicabile a tutti. Vale per certe persone, certamente, ma altre persone la pensano diversamente e vanno rispettate, per fortuna siamo diversi. Quella che voglio brevemente raccontare è una delle esperienze più belle che io abbia vissuto fino ad ora, un’esperienza che mi ha consentito di realizzare uno dei miei tanti sogni, uno di quelli che
sentivo ardere più intensamente.
Unire il volontariato e il viaggio, in Islanda. Vivere in uno degli angoli più remoti e più incontaminati del mondo.
Fu il mio primo viaggio da solo, presi l’aereo di notte da Malpensa e di notte arrivai a Keflavik, l’aeroporto ad un’ora di strada da Reykjavik, la capitale. Passai la notte in aeroporto, dove casualmente conobbi Juan Jesus, un trentaquattrenne spagnolo che avrebbe partecipato al mio stesso campo. Insieme andammo a Reykjavik e ci incontrammo con gli altri partecipanti al campo. Un team internazionale, ovviamente. C’erano due ragazze tedesche, un ragazzo dI Hong-Kong, una canadese, due spagnoli (uno dei due era Juan, l’altro era Samuel, il nostro giovane camp-leader) ed io. Il nostro compito per due settimane fu quello di ripulire dall’immondizia i fiordi nella regione delle Westfjords, nella parte nord-ovest dell’isola, affacciata sull’oceano. Immondizia? In Islanda? Certo che si, la Corrente del Golfo infatti trasporta moltissimo materiale dannoso per l’ambiente sulle coste, soprattutto pezzi di plastica di ogni tipo e reti da pesca scartate dalle navi e buttate in mare.
Con il passare dei giorni diventammo una squadra sempre più efficiente e coesa. Oltre a rimuovere chili e chili di plastica e metri di reti da pesca, passavamo anche qualche ora nelle hot-tubs, pozze di acqua calda proveniente dal sottosuolo vulcanico dell’Islanda, sono uno dei principali passatempi degli islandesi. Le hot-tubs di Drangsnes, il villaggio da 80 abitanti in cui eravamo ospitati, si affacciano su un fiordo che entra per decine di chilometri nella costa dell’isola. Noi andavamo alle hot-tubs nel tardo
pomeriggio, nonostante fossero le 18-19 il sole era ancora alto. In Agosto infatti sorge attorno alle
3 della notte e si ha il buio completo solo attorno a mezzanotte inoltrata. La nostra giornata solitamente terminava con una passeggiata (a cui pochi prendevano parte a causa della stanchezza) e una tazza di the homemade. La maestra della scuola del villaggio, Martha, ci insegnò infatti a riconoscere e raccogliere un particolare tipo di fiore che cresce in quella regione, per poi utilizzarlo come infuso. Berlo prima di dormire diventò un’abitudine per me e per la mia coetanea da Amburgo.
Il fiordo che vedevamo dalle finestre della casa che ci ospitò era pieno di vita, anche per merito di
Grimsey Island, un’isola a poche miglia dalla costa, dove nidificano migliaia di gabbiani e pulcinelle di mare, variopinti e buffi animali simili a pinguini che vivono esclusivamente nelle Isole Farøer e in Islanda. Un giorno una barca ci portò anche su Grismey Island, dove ci calammo da una scogliera di 30 metri e ripulimmo la spiaggia, circondati da stormi di centinaia di pulcinelle di mare. Nel weekend della prima settimana andammo a fare hiking, risalimmo il monte Drangs e scendemmo dal versante opposto, per poi finire in una specie di centro benessere con piscina, dove ci accolsero a braccia aperte per il lavoro che stavamo facendo. Nel ritorno a Reykjavik avvistammo anche un branco di tre balene, fu uno spettacolo che mi rimase impresso così profondamente che credo mai lo dimenticherò.
Il campo durò in totale 13 giorni, rimasi poi altre 2 notti a Reykjavik con alcuni dei miei compagni di volontariato, vivendo insieme 24 ore al giorno. Per due settimane si erano infatti creati dei legami fortissimi. Girammo per la città, in alcuni momenti da soli, in altri tutti insieme. Essendo molto piccola per essere una capitale era facile ritrovarsi anche senza accordarsi precedentemente. Una sera mangiammo cibo tipico islandese, tra cui una zuppa di crostacei, carne di montone, di squalo e di balena. Questi ultimi due li assaggiò solo Juan. Andammo poi a bere una birra in un affollato pub in Hverfisgata, una delle vie principali di Reykjavik.
Riassumere tutto ciò che ho vissuto e provato in due settimane in Islanda non rende certo onore all’esperienza fatta e a ciò che mi ha lasciato, ma rischierei di dilungarmi veramente troppo. Sento che quella fu una delle esperienze più intense e significative della mia vita: realizzai il mio sogno di vedere l’Islanda, sogno che coltivavo da anni e che ora è mutato nel desiderio di tornarci.
La prima impressione fu quella di trovarmi su un altro pianeta. Ricordo perfettamente di quando ero sul pullman con Juan Jesus, diretti a Reykjavik. Lo spettacolo fuori dal finestrino non è facilmente descrivibile con le parole. Immense distese di roccia nera, vulcani dalla cima innevata che si alzano all’orizzonte, i raggi del sole che si riflettono sull’Oceano Atlantico settentrionale anche a mezzanotte, l’aria fresca e purissima che entra nei polmoni, il rincorrersi delle nuvole, talmente basse da dare l’impressione che stessero accarezzando quella magica isola, dove la natura non viene soggiogata dall’uomo e dove l’uomo ha imparato a vivere nel rispetto del mondo che lo circonda. Un chiaro esempio di questo profondo rispetto per la natura si può trovare nella lingua islandese, “heima” significa “casa”, “heimur” significa “mondo”. La radice è la stessa: negli islandesi il legame con l’ambiente naturale è fortissimo, lo considerano la loro casa.
Credo che la semplicità e la selvatichezza dell’Islanda ti facciano profondamente capire quante cose superficiali consideriamo importanti nella nostra vita e, al contempo, quante cose importanti consideriamo banali e poco rilevanti. I momenti che apprezzai di più furono quelli passati nelle hot-tubs con i miei amici, o seduti in cima ad una scogliera a guardare i colori del fiordo e a parlare dei libri che ci piace leggere e dei sogni che abbiamo nella vita. Mi sentivo come se fossi arrivato in un ambiente di natura talmente incontaminata da influire in maniera radicale anche sui rapporti umani, come se pure quelli fossero tornati ad uno stato primordiale, incontaminato. Che fosse una mia impressione o che fosse la realtà, quello fu ciò che sentii in quelle due settimane. Mi sembrarono due settimane meravigliosamente al di fuori del tempo.
Quando tornai in Italia, dopo qualche mese, decisi di entrare a far parte del comitato di Padova dello SCI (Servizio Civile Internazionale), che fece da tramite prima della partenza con l’associazione islandese SEEDS per questioni burocratiche/amministrative. Ora sono un membro di questo gruppo di volontari, per portare la mia testimonianza, per aiutare altre persone a capire cosa significhi partecipare ad esperienze come queste e per aiutarle a partire in senso effettivo, in qualsiasi parte del mondo si decida di andare.Vorrei ringraziare particolarmente per quelle due bellissime settimane i miei genitori; i miei compagni di volontariato Juan Jesus, Paola, Jason ribattezzato Roberto, Samuel, Casey e Miriam; Finnyr, il sindaco di Drangsnes; Martha, la maestra del villaggio; i pescatori e i contadini di Drangsnes; lo staff dello SCI (soprattutto i nuovi amici dello SCI Padova) e quello di SEEDS Iceland.
Og tankur sem þú Ísland!