di Valerio Renzi*
Lungo la strada che che va da Ramle a Lod, a venti minuti di auto dal centro di Tel Aviv e a un paio di chilometri dall’aeroporto Ben Gurion, si trova il villaggio arabo di Dahmash. Seicento persone che occupano un fazzoletto di terra stretto tra strade a scorrimento veloce e la ferrovia , assediato da rifiuti e sfasciacarrozze. Profughi dal 1948 ma senza vedere riconosciuto il proprio status dall’Onu, non essendo scappati in Giordania o altrove, gli abitanti di Dahmash hanno costruito qua la propria città ai margini della capitale dello Stato di Israele. Dalle prime baracche e le tende a casa a tre piani, qui hanno lavorato per costruirsi una casa dignitosa tre generazioni. Dopo più di sessant’anni per Israele gli abitanti di Dahmash sono ancora abusivi, per la burocrazia li dove vivono da generazione ci sono dei terreni agricoli e non delle case, eppure la corrente e l’acqua i palestinesi di Dahmash la pagano e a caro prezzo. Tubature, fogne, impianti d’illuminazione si sono costruiti tutto da soli: Ramle, Lod e Tel Aviv si sono rifiutati di accoglierli tra i loro cittadini. Così ecco gli ordini di demolizione e ogni tanto le ruspe che tirano giù un’abitazione.
Ora la vittoria per gli abitanti di questo vero e proprio quartiere rischia di diventare una debacle: la suprema corte israeliana potrebbe riconoscere il loro diritto ad esistere alla fine di una decennale battaglia legale della comunità, così aumentano le pressioni per velocizzare lo sgombero e l’abbattimento delle case.
Così gli abitanti di Dahmash hanno deciso di mobilitarsi: percorrono il viottolo in mezzo ai campi che porta alla strada principale intonando slogan, “non demolite le nostre case”, portano cartelli scritti a mano e striscioni. In testa i bambini indossano delle magliette con su scritto “recognize it”.
Arrivati a ridosso della strada ad alto scorrimento vengono bloccati dalla polizia, telecamere e mitra in mano. Assiepati dietro la rete che separa i campi di sterpaglia e rifiuti dal marciapiedi cantano e si sbracciano. Alla manifestazione partecipano anche una trentina di israeliani, sono quelli di Anarchist against the Wall e della campagna di boicottaggio internazionale BDS e qualche esponente di Hadash, acronimo del partito di sinistra composto da israeliani e palestinesi Fronte democratico per la pace e l’uguaglianza.
Dalle finestre si affaccia qualche cittadino israeliano, chi viaggia nelle macchine che sfrecciano probabilmente non si accorgono neanche che qualcuno protesta, urla per manifestare il proprio diritto ad esistere. Non c’è né una telecamera né apparentemente un cronista. Il paradosso di essere palestinesi in Israele è quello di essere ridotti al silenzio e all’impotenza più che nei territori occupati: per ogni sasso che vola in Cisgiordania c’è un fotografo pronto a raccontarlo, un comitato preparato a far rimbalzare un tweet o uno status facebook, una telecamere di qualche emittente satellitaria a riprendere. Questi palestinesi invece sono ridotti all’invisibilità, spinti ai margini dal regime di apartheid. “L’occupazione continua ancora oggi anche qua, non solo in West Bank”.
Alle nostre spalle alcuni manifesti pubblicitari, usciti durante i bombardamenti su Gaza, invitano a venire in vacanza sul lungo mare israeliano, due infradito da spiaggio a fare da testimonial.
Dopo un paio d’ore la manifestazione torna sui suoi passi continuando senza sosta a scandire slogan e agitare cartelli. Come andrà andrà ora sono tutti contenti: era dal 2010, a seguito di alcune demolizioni, che la comunità di Dahmash non si mobilitava in toto e gli attivisti israeliani, abituati a sostenere le manifestazioni contro il muro e l’occupazione in West Bank, hanno aperto una breccia nella diffidenza degli abitanti di Dahmash.
*in viaggio con la delegazione del Servizio Civile Internazionale e dei movimenti per l’acqua bene comune #Water4Palestine
L’originale: DinamoPress
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Per seguire la delegazione sul web:
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