È venerdì, e come ogni venerdì da ormai otto anni, un gruppo di attivisti del villaggio di al-Ma’sara partecipa alla manifestazione nonviolenta che percorre le strade del paese fino giungere un muro di soldati israeliani che, anche loro come ogni venerdì, blocca il cammino verso terreni agricoli del villaggio. Oggi, 17 ottobre ci sono una decina di attivisti palestinesi accompagnati da israeliani e internazionali, che hanno deciso di partecipare alla manifestazione settimanale contro l’occupazione militare che i palestinesi vivono dal 1967. Vi partecipa anche una banda musicale, che dà un tocco di festa alla protesta: si festeggia l’ottavo anniversario della creazione del comitato popolare di resistenza di al-Ma’sara. Da quando esiste il comitato, ogni venerdì è scandito dalla manifestazione che ha lo scopo di rendere visibili le costanti violazioni dei diritti umani subite dai palestinesi in generale, e dagli abitanti di al-Ma’sara in particolare.
In questo villaggio di circa 1.000 abitanti a pochi chilometri da Betlemme, nel 2006 un gruppo di residenti del villaggio ha scelto di unirsi ai movimenti di resistenza non-violenta, già attivi in altri villaggi palestinesi come Bil’in e Beit Ummar. Successivamente, tutti questi comitati sono confluiti nel Popular Struggle Coordination Committee (PSCC). Attualmente, sotto tale acronimo si possono individuare comitati di molti villaggi palestinesi diversi tra loro che, nonostante soffrano l’occupazione militare in modi diversi, hanno in comune la lotta nonviolenta ispirata alla Prima Intifada come strumento di resistenza. Questa lotta si concretizza in marce, scioperi, proteste, azioni legali e campagne come il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).
In particolare. il comitato di al-Ma’sara ha cominciato a prendere forma nel 2005, quando sono arrivate nel villaggio le prime notizie sull’intenzione del governo israeliano di fare passare la Barriera/Muro di Separazione (e annessione) nella zona. A quel tempo, seguendo il modello di altre esperienze di successo di resistenza nonviolenta come Bil’in, gli abitanti hanno cominciato a lavorare sulla creazione del comitato, che sarebbe poi nato nel 2006. Secondo Mahmoud Zwahre, uno dei membri fondatori e ancora attivo nel comitato, formalizzando il gruppo si ha avuto la possibilità di rafforzare la lotta e di condividere, dibattere e diffondere le opinioni di tutte le persone che ne fanno parte.
Durante gli otto anni di attività il comitato di al-Ma’sara “è divenuto un modello di resistenza”, assicura Zwahre. Attualmente ne fanno parte una decina di persone che organizzano settimanalmente la protesta dei venerdì. Questa è probabilmente l’azione più visibile, anche se non l’unica: gli attivisti di al-Ma’sara spesso partecipano anche a molte delle azioni organizzate dal PSCC o da altri comitati dei villaggi vicini. Dall’altra parte, in questi otto anni di azione hanno lavorato per creare dei vincoli di solidarietà all’estero, sempre con l’obiettivo di “portare giustizia, pace e libertà per la Palestina”, dice Mahmoud Zwahre.
Dal 2006, il comitato popolare di al Ma’sara ha celebrato come prorprie le vittorie degli altri villaggi, come ad esempio quelle di Bil’in. Per Mahmoud Zwahre il risultato più importante è che “i nuovi soldati della resistenza nonviolenta sono una nuova generazione che crede nella resistenza popolare”.
Così Al Ma’sara e’ stata la protagonista di otto anni di lotta nonviolenta con esiti positivi e alcuni fallimenti, tra i quali quello del contenimento dei piani espansionistici delle colonie di Israele. Il 31 agosto passato, il governo di Benjamin Netanyahu ha annunciato una nuova espropriazione di 400 ettari (ha) di terreno agricolo nei villaggi intorno a Betlemme. Senza dubbio, la resistenza non violenta in Palestina si rafforza con queste nuove aggressioni israeliane. A seguito di questa dichiarazione e seguendo il modello di lotta nonviolenta del PSCC e dei comitati come Al- Ma’sara, sta nascendo un nuovo comitato a Wadi Fukin, uno dei luoghi che verrebbe maggiormente colpito dall’eventuale confisca delle terre.
Prima della creazione dello stato di Israele, Wadi Fukin si estendeva per 12.000 dunums, circa 1.200 ettari (ha). In seguito alla guerra del 1948, i suoi abitanti persero 900 ettari e a seguito dell’annuncio della confisca del 31 agosto scorso rischiano di perderne ulteriori 150. Wadi Fukin resterebbe così con 150 ettari, 20 dei quali sono situati in area B mentre i restanti in area C, sotto controllo assoluto dell’esercito israeliano e dove per i palestinesi è difficilissimo ottenere i permessi per costruire. Ahmad Mahamed Sokar, sindaco di Wadi Fukin e tra gli alfieri del nuovo comitato popolare, spiega che lo spazio che resterà per i 1.3000 abitanti del paesino, nel caso la disposizione diventi effettiva, sarà insufficiente. Anche nel caso contrario però, ammonisce il sindaco, i soldati “spesso impediscono ai contadini di utilizzare e di coltivare le proprie terre”, denunciando inoltre come spesso danneggino le aree agricole e taglino gli ulivi.
Questi non sono gli unici problemi del villaggio di Wadi Fukin, situato in un’area compresa tra la Linea Verde – creata nel 1949 per separare i territori del nuovo stato di Israele dalla Cisgiordania. Wadi Fukin è infatti circondato dalle colonie, alcune delle quali si trovano a pochi metri dal villaggio. “Abbiamo anche un grande problema con la colonia di Beitar Illit: i coloni gettano le acque fognarie nelle nostre terre”, spiega il sindaco. Le acque sporche hanno contaminato 10 ettari di terra, rendendoli inutilizzabili. “Sarebbe molto pericoloso fare qualcosa”, incalza.
In questo momento Wadi Fukin ha solo un punto di accesso, in questo modo per raggiungere i villaggi vicini, come ad esempio, al- Jab’a o Nahhalin, situati a pochi chilometri, bisogna compiere un lungo giro. L’annessione di nuovi territori, sommato alla perdita di terra disponibile, farà aumentare l’isolamento di questa popolazione. “Se gli israeliani attuassero il piano e confiscassero le nostre terre, resteremmo come in un’isola, circondati solo dalle colonie”, lamenta il sindaco.
Prima di questa situazione, un gruppo di persone del villaggio ha deciso che bisognava reagire non solo per vie legali, come già stavano facendo, ma mobilitare tutta la popolazione per dare visibilità e denunciare la situazione di Wadi Fukin. La volontà di resistere deriva anche da due esperienze passate positive.La prima, la mobilitazione raggiunta negli altri villaggi palestinesi dove da anni si porta avanti una strategia di resistenza nonviolenta. Nella seconda la gente di Wadi Fukin è parte di questa storia positiva. Il sindaco spiega che Wadi Fukin fuil primo villaggio in cui i palestinesi tornarono in seguito alla Nakba (catastrofe) del 1948, in cui tra 700 e 900.000 dovettero abbandonare le loro abitazioni.
Durante la guerra del 1948, la maggior parte delle case di Wadi Fukin fu derubata dall’esercito israeliano e i loro abitanti scapparono. Molti di loro si rifugiarono nel campo profughi di Dheishe, a sud di Betlemme. Tornavano nel frattempo a lavorare le loro terre, e dopo oltre 10 anni riuscirono a recuperare le loro case e tornare al villaggio. Per non perdere di nuovo parte delle loto terre, circa tre settimane fa Ahmad Mohamed Sokar e alcuni degli abitanti del villaggio hanno iniziato a organizzare azioni per coinvolgere la maggior parte del paesino. Mohamed Sokar spiega che in alcune occasioni sono riusciti a raggiungere un centinaio di presenze, anche se auspica una sempre maggiore partecipazione. Prosegue spiegando che molte persone del villaggio non credono che questo tipo di azioni possano essere utili e preferiscono optare solo per le vie legali. Però lui e coloro che scendono a protestare tentano di convincerli che le manifestazioni, le marce e le altre azioni possano essere utili per dare visibilità ai problemi degli abitanti di Wadi Fukin, non solo a livello palestinese bensì anche a livello internazionale e tra le colonie israeliane.
In questo senso, venerdì scorso, quando hanno visto che non c’era molta gente alla protesta che avevano convocato, hanno improvvisato una marcia tra i campi di ulivi che sono più vicini alla colonia di Beitar Illit per spiegare e mostrare alle famiglie che lavoravano nella raccolta delle olive che sono al loro fianco. Durante la marcia, si è improvvisato un checkpoint palestinese che impediva l’accesso delle macchine dei coloni che volevano entrare nel villaggio.