Raccontare mattonelle

 Al-Araqeeb, regione del Nagev (Israele).

Villaggio palestinese beduino “non riconosciuto” dal governo di Israele.

 

Al Arqib - di Ginevra Sammartino

Aziz ci mostra i tubi spezzati che fuoriescono dalla terra. Dove prima entravano nelle loro case ora si affacciano dal terreno come radici che hanno sbagliato strada. Delle case non è rimasto più nulla, se non qualche qualche pezzo di mattonella in mezzo all’erba, dove prima c’erano i pavimenti delle cucine, dei bagni, delle stanze da letto, ora solo frantumi consumati di mattonelle arancioni, di mattonelle a fiori, di mattonelle a scacchi neri e bianchi. Tanti frantumi di mattonelle sparsi qua e là.

Aziz ce le indica come se dovesse darci prova concreta dei suoi racconti, come abituato a dover sempre dimostrare ciò che afferma, o forse, mi dico, perché negli anni ha visto troppe facce incredule di fronte ai suoi racconti, come se credesse che è nostra necessità dover toccare con mano quelle mattonelle e verificare che lì dove lui racconta di aver ricostruito tante e tante volte le loro case dopo essersele viste demolire altrettante volte, verificare che lì su quel suolo ci sono ancora i resti delle condutture dell’acqua, dei cavi dell’elettricità e così via, e se ci sono tubi e cavi, ma sì, le case di cui parla dovevano proprio esistere.

E allora sorge quasi quell’imbarazzo di chi crede a un racconto e non avrebbe bisogno della prova, o forse in fondo non vorrebbe dover toccare quella prova con le proprie mani, guardarla con gli occhi, fotografarla.

Ora però io stessa quelle foto le mostro, e mentre racconto la storia di Aziz, della sua famiglia e delle famiglie di Al Araqeeb ricordo con estrema precisione quelle mattonelle e non riesco a fare a meno di nominarle a mia volta, di mostrare a mia volta le prove.

Niente da fare, sarà forse il pregiudizio per cui il tatto e la vista sono sensi che hanno più presa nel nostro immaginario, o almeno più del solo udito. Eppure mentre il padre di Aziz ci raccontava degli aerei che fino a qualche anno prima passavano sopra le loro terre, sopra le loro teste, riversando pesticidi che hanno avvelenato ulivi, persone e animali, io quegli aerei li ho immaginati nitidamente, come se Aziz ci avesse mostrato anche quelli, come se avessimo toccato le foglie malate degli ulivi avvelenati, di sicuro le ho toccate in sogno, una volta tornata in Italia , mentre la mente da sveglia ma anche nel sonno cercava ostinatamente di riconoscere sensazioni e riorganizzare i pensieri che si erano accumulati in quelle due settimane scarse tra West Bank e Israele.

Aziz ci crediamo, non abbiamo bisogno di vedere per credere alle tue parole, è il Tribunale che te lo richiede, non noi, dì a tuo padre che non c’è bisogno che ci faccia vedere gli atti di proprietà di queste terre. Eppure lui ci tiene a mostrarli e ci passa il cellulare con le immagini dei certificati.

E come per un brutto scherzo della memoria mi tornano in mente quei rifugiati vittime di tortura che accompagnavo dal medico e che mi mostravano le cicatrici prima ancora di entrare nella stanza delle visite, e io provavo a spiegare loro che non dovevano farle vedere a me, ma al medico qualora avesse avuto bisogno di curarle o certificarle, ma che io non avevo bisogno di vederle per credere ai loro racconti, e lo ripetevo ogni volta, finché capii che probabilmente alcuni di loro non me le mostravano solo per confermarmi i vissuti raccontati bensì perché era loro desiderio e basta. Che fosse per condividere il dolore o perché mostrarne le cicatrici fosse un tentativo di liberarsene, o per convincermi di quanta ferocia avessero subito non importava. In fondo qualunque fosse il motivo, il loro e quello di Aziz, andrebbe rispettato, nient’altro.

Quindi forse per esorcizzare quel dolore, per trasformarlo instancabilmente in resistenza o forse ancora per ricordare di continuo anche a se stesso che prima delle tende al cimitero aveva una casa e ci abitava con sua moglie e i suoi cinque figli, quella moglie che ora bolle l’acqua alle 5 del mattino per lavarli uno ad uno e mandarli a scuola puliti.

Al Arqib - di Ginevra Sammartino

Il cimitero di Al Araqeeb ora ospita le tende dei suoi abitanti, le oche, le coperte stese ad asciugare. Cimitero testimone dei morti e dei vivi, testimonedegli aerei, dei pesticidi, delle demolizioni, dei cammelli sequestrati, degli ulivi che rinascono e resistono a loro volta, e testimone dei nuovi alberi beffardi piantati da quell’organizzazione sionista che riceve donazioni da tutto il mondo per conficcare alberi che non danno frutti proprio sulla terra in cui il governo israeliano demolisce le case e taglia gli ulivi degli abitanti di Al Araqeeb.

Il sito della Jewish National Fund recita:

“Pianta un albero nel deserto e vinci un viaggio in Terra Santa. Trasforma il sogno in realtà. Sii parte del miracolo. La regione del Negev sarà la partita dove si giocherà l’abilità creativa dei pionieri di Israele”.

Il dizionario della buona demagogia traduce:

“Aiutali a uccidere un ulivo e sarai il benvenuto in Israele. Trasforma un incubo in un inferno. Sii parte del genocidio. La regione del Negev sarà il terreno di gioco in cui sperimentare il danno e anche la beffa del governo di Israele”.

……Così sarai un uomo di fede.

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