La crescente tensione delle ultime settimane a Gerusalemme è il frutto di una pericolosa e stratificata combinazione di politiche volte a rafforzare e aumentare la presenza israeliana nella città a discapito di quella palestinese.
Gerusalemme Est e la Città vecchia, oltre alla Cisgiordania, furono conquistate nel 1967 durante la Guerra dei Sei giorni; nonostante l’occupazione militare, nel 1980 la città fu dichiarata dal governo israeliano “capitale eterna e indivisibile di Israele”. Da allora Gerusalemme è diventata uno dei luoghi più contesi al mondo, e la sua restituzione una condizione irrinunciabile per i palestinesi durante tutte le trattative con Israele. Nel frattempo, le politiche di colonizzazione della città, gli sfratti e le demolizioni delle case di palestinesi non si sono mai fermati, ridisegnando attraverso queste forme di violenza “strutturale” e segregazionista lo spazio urbano e l’identità di Gerusalemme.
Tuttavia, negli ultimi tempi a spingere il piede sull’acceleratore degli eventi e ad aumentare la rabbia è stato un gruppo di intransigenti e “messianici” fomentatori: un gruppo di ebrei ultraortodossi che si propongono di modificare lo status quo del Haram al- Sharif (o Monte del Tempio), luogo sacro sia per i musulmani che per gli ebrei. Si tratta di una frangia estremista della società israeliana che trova però appoggio nel governo di coalizione di destra, in particolare all’interno del partito religioso Jewish Home di Naftali Bennett, che ne sostiene, molto spesso apertamente, le attività.
Ad infiammare la crisi è stata la rapida successioni di alcuni avvenimenti: il ferimento di un estremista religioso da parte di un palestinese, ucciso poi la stessa notte dalle forze di occupazione israeliane; il ritrovamento del corpo di un autista palestinese, che secondo la famiglia sarebbe stato torturato e poi impiccato da un gruppo di estremisti israeliani; l’uccisione di quattro rabbini all’interno di una scuola religiosa in un quartiere di Gerusalemme. Per scoraggiare le azioni palestinesi, la risposta elaborata da Israele già molti anni fa, e ripresa quest’estate prima del massacro di Gaza, è quella della demolizione delle case delle famiglie dei colpevoli – o presunti tali – degli attacchi, un’azione punitiva senza alcuna razionalità politica, se non quella di rendere la vita impossibile ai palestinesi. Così, anche in questi giorni il governo di Netanyahu ha optato per la linea dura demolendo le case delle famiglie degli attentatori.
In questo contesto turbolento, i comitati di resistenza popolare non-violenta in Cisgiordania stanno riuscendo ad incanalare la frustrazione della gente, la disillusione verso qualsiasi soluzione al conflitto e la rabbia crescente per l’immobilità dei principali partiti, attraverso azioni simboliche e creative volte a creare dal basso le forme di resistenza più consone al contesto palestinese e a restituire ai palestinesi la voglia di riprendersi il destino della loro stessa comunità.
Venerdì 14 novembre, una decina di attivisti palestinesi e internazionali sono riusciti a scavalcare il muro dell’Apartheid a Qalandyia, tra Ramallah e Gerusalemme. L’azione aveva come obiettivo quello di portare alla luce la violazione dei diritti fondamentali dei palestinesi, come quello di muoversi liberamente e di raggiungere i luoghi sacri. La settimana precedente, in concomitanza con il 25 anniversario dalla caduta del muro di Berlino, un piccolo gruppo è riuscito a rompere un pezzo del Muro dell’Apartheid, che dal 2004 ormai soffoca la popolazione palestinese e ne annette i terreni. Una piccola fessura in un muro interminabile, che però ha il potere di lanciare un messaggio forte al mondo: anche questo muro, come altri, un giorno cadrà.
Lo stesso giorno, nei villaggi di Kissan e Rashaideh, vicino a Betlemme, in un’area circondata da varie colonie israeliane e sotto alto rischio di confisca di alcuni terreni agricoli, un altro gruppo di attivisti locali e internazionali, accompagnati dagli abitanti dei villaggi, sono riusciti a piantare oltre 300 alberi di ulivo nonostante la presenza dei soldati e della polizia israeliani, che poche ore prima avevano dichiarato l’area “zona militare chiusa”. Al termine dell’azione, i residenti del villaggio si sono raccolti sulla loro terra per la preghiera del venerdì. Dopo la preghiera, le forze di occupazione hanno tentato di disperdere il gruppo con lacrimogeni.
E anche venerdì, 21 novembre la maggior parte dei comitati locali ha dedicato la loro protesta alla situazione di Gerusalemme. E come ogni venerdì, l’esercito ha risposto con un uso sproporzionato e ingiustificato della forza. A Nabi Saleh, Nariman Tamimi, un’attivista del villaggio, è stata ferita alla gamba dall’esercito di occupazione durante la protesta. La dimostrazione pacifica voleva commemorare il secondo anniversario della morte di Rushdi Al Tamimi, ucciso dalle forze di occupazione israeliane.
Per molti, all’interno dei comitati popolari, questa situazione di grande tensione è il preludio di una terza Intifada nonviolenta.