Racconto da un campo in Tanzania

L’articolo è stato scritto da Alice Giusti, che nell’agosto 2013 ha partecipato a un campo in Tanzania, in una scuola meterna di Mbande, Temeke. Il suo racconto ha vinto il Concorso Campi indetto da SCI-Italia.

Il mio taxi avanzava lentamente nel traffico di Dar es Salaam, Tanzania, mentre il mio aereo volava via, volava via con i miei compagni di viaggio, volava via con le mie paure, volava via con quella tristezza di tornare a casa che mi aveva convinta a rimanere ancora. Il mio taxi avanzava lentamente mentre la voglia di riabbracciare i bimbi, le maestre, i miei nuovi amici mi faceva sentire viva, viva come mai mi ero sentita prima di quei giorni trascorsi in quel continente imperfetto: l’Africa. Il mio viaggio di ritorno al campo era accompagnato dalla tipica musica locale, una musica allegra, ritmica e tanto profonda da riflettere la molteplicità di colori di quei luoghi. L’uomo al volante era incuriosito dalla mia storia: una donna partita da sola dall’Italia per…per…

Il primo giorno di scuola, mi ritrovai davanti la casa di una maestra. Davanti la porta di entrata tante scarpe piccole e colorate. Oltre la porta d’entrata tante vocine squillanti che ripetevano le vocali. Varcata quella porta, improvvisamente il silenzio. Una trentina di bambini, seduti e sdraiati su un tappeto rosso, lercio, mi guardavano meravigliati, con quegli occhioni neri che raccontavano tante storie diverse. Alla lavagna una donna. Una donna magra, non troppo alta, con il volto coperto dal burqa. Immediatamente mi fu offerta una sedia, ma la voglia di far parte di quel mondo mi fece sedere a terra accanto a loro che subito mi chiamarono “Madame Alice”. “Madame Alice” sentivo risuonare tra le capanne quando il pomeriggio passeggiavo, “Madame Alice” ripetevano migliaia di volte quaranta bimbi quando volevano mostrarmi come avevano scritto bene la lettera “A”. Mi fu immediatamente chiaro che non ero lì per insegnare l’inglese, che in venti giorni non avrei potuto insegnargli la matematica. Io ero lì per provare a mostrare altro a quei bimbi: che l’”uomo bianco”, il muzungo, non è solo ricco, “fraccomodo” e “superiore”; io ero lì per “condividere” non per “insegnare”. E così mi ritrovai a ballare e a cantare con loro, a parlare la loro lingua, a memorizzare tutti i loro nomi. A ricreazione imparammo a lavarci le mani a vicenda, a metterci in fila e soprattutto a rispettarla. Trovammo un trucco per allacciare le scarpe di 3 numeri più grandi e per fermare le gonne delle bimbe senza bottoni. Mentre la maestra allattava suo figlio io andavo con gli altri a caccia di colori. Gli alunni erano abituati a ripetere le parole e i numeri a memoria ma poi… non sapevano riconoscerli.

Il burqa della maestra era ormai diventato solo un accessorio. Quello che inizialmente mi era sembrato un muro invalicabile ora era un affascinante simbolo della sua cultura, del suo essere.

La proprietaria della scuola si chiamava Stella. Stella era una bella donna di una quarantina d’anni, anche lei indossava il velo e teneva tantissimo alla sua immagine, ai suoi abiti coloratissimi che stirava con un vecchio ferro a carbone, mentre nella stanza accanto facevamo lezione. Stella era sposata con un uomo che tutti i pomeriggi andava da un’altra donna. Stella non poteva avere figli e per questo aveva aperto la sua casa ai figli degli altri. Stella amava i miei pantaloni, i miei capelli lunghi, Stella diceva sempre che voleva sentirsi libera come me. Che voleva essere forte come me. In realtà io non mi ero mai sentita così libera e così forte prima di allora.

Il mio taxi non avanzava più lentamente ma sfrecciava tra le capanne dove vendevano di tutto: uova, fagioli, banane, bottiglie d’acqua e ricariche telefoniche. Quando il taxi si fermò davanti alla scuola, alla radio la musica ancora suonava. I bimbi però non si accorsero subito di me. Era l’ora della ricreazione e l’emozione fu enorme quando mi accorsi che tutti in fila, insieme alla maestra, cantavano le mie canzoni mentre si lavavano le mani. Guardai l’uomo che mi aveva accompagnato fin lì e aveva ascoltato curioso la mia storia. La storia di una volontaria che dopo venti giorni di campo aveva gettato il suo biglietto aereo per tornare ancora indietro. La storia di una donna, partita da sola dall’Italia per… per trovare quelle emozioni semplici che si porterà dentro per tutta la vita.