Difesa ambientale e coscienza individuale: racconto di un campo in Islanda

L’articolo è stato scritto da Giancarlo La Rocca, che nel febbraio 2017 ha partecipato a un campo di volontariato SCI in Islanda, a Reykiavìk.

In un’aula di Scienze Politiche, prima di una lezione di Diritto Internazionale allo Sviluppo, parlando con una collega di ambizioni ed esperienze, nacque l’idea di andare sul sito del Servizio Civile Internazionale e dare un’occhiata alla lista dei campi disponibili. Confesso, se ce ne fosse bisogno, che la presenza in quella lista dell’Islanda ha tolto di mezzo ogni dubbio sull’opportunità stessa di fare un’esperienza del genere.

Da novembre, l’Islanda è rimasta chiodo fisso dei miei progetti, rafforzata, anche qui, se ce ne fosse stato ancora bisogno, dalla tematica del campo: l’ambiente e la coscienza individuale di ciò che è in nostro potere, dalla conoscenza all’atto pratico. Studiando il diritto allo sviluppo e, tra le altre, la tematica ambientale dalla sua origine sino all’Accordo sul clima siglato a Parigi nel 2015, è stato facile appassionarsi a tutto ciò che gravita intorno alla gestione energetica e all’attitudine dell’uomo verso l’ambiente circostante, dal punto di vista sociologico ma soprattutto politico ed economico.

Può sembrare uno stereotipo, ma ad un certo punto ci si confronta necessariamente con quanto si è fatto in prima persona in merito a ciò che ci appassiona, e decidere di partire per il campo “Environmentally Aware” in Islanda è stato un piccolissimo passo per avere più consapevolezza, appunto, del nostro operato. Ne ero convinto prima di partire, e ne potevo uscire solo rafforzato, viaggiare è senza dubbio il modo migliore per confrontarsi con il proprio orizzonte, per via dell’apporto diretto o indiretto degli altri su di noi.

Condividere quei giorni di febbraio, tra neve, vento e “toglietevi le scarpe appena entrate a casa”, con altri nove ragazzi e ragazze dal mondo, è stata la parte più emozionante e soddisfacente dell’intero campo. E abbiamo anche avuto la fortuna di assistere all’aurora boreale, giusto per dare un metro di paragone. Stabilire un dialogo con indiani, americani, tedeschi, coreani, cinesi, giapponesi, romeni, polacchi e ovviamente islandesi; fare battute in una lingua non tua e mangiare cibi da parti del mondo dove forse non andrai mai; condividere punti di vista politici e personali su tutto: aiutarsi a capire il mondo che si abita. Non è una cosa che capita tutti i giorni. È una cosa che vorresti potesse accadere sempre.

Spostandoci più sul piano pratico, dal punto di vista organizzativo il campo è stato messo in crisi dalle condizioni climatiche, manco a farlo apposta. Nel senso che la neve, gli ultimi tre o quattro giorni, ha davvero complicato le nostre possibilità di rispettare la tabella di marcia e apprezzare a pieno le attività programmate. Ci siamo rifatti stando a casa, affrontando un quiz sul cambiamento climatico del National Geographic, cucinando il cibo stipato in valigia dai diversi punti del globo da dove era partito e discutendo di ciò che avevamo imparato. Prima della fatidica nevicata che in mezza nottata ha coperto con almeno mezzo metro di neve tutte le strade dell’Islanda del sud, le attività previste dal campo ci hanno portato per più volte in mezzo alla strada, in mezzo a Reykjavik, con le mani impegnate a raccogliere spazzatura dalla costa, a distribuire volantini e adesivi informativi, con le orecchie aperte a cercare di capire una cultura particolare e notevolmente capace di insegnare, con gli occhi spalancati per non perdersi le montagne innevate, l’orizzonte della città vista dalla cima della chiesa, le balene in mezzo all’Oceano, l’aurora in mezzo al nulla alle due di notte, chiusi solo quando bisognava giocare al gioco di carte Lupus, o Mafia, o Werewolf, o in qualunque modo vogliate chiamarlo.

Il giorno successivo all’arrivo, infatti, siamo andati tutti sulla costa: una cittadina, spontaneamente e senza grosse ambizioni, aveva deciso che quella domenica doveva pulire la costa di Reykjavik dalla spazzatura; e così con guanti e sacchetti, abbiamo fatto compagnia alle decine di famigliole e coppie di amici che si erano recati anche loro per ripulire un lunghissimo tratto di costa. La partecipazione per nulla programmata della città, arrivata ai presenti grazie al passaparola e a qualche messaggio su Facebook, è stata incredibile, a sentire l’emozionata organizzatrice, una donna di un metro e ottanta in tuta sintetica a difendersi dal freddo sulla sula bici elettrica, fornita di portapacchi, ovvero di porta buste della spazzatura di fortuna. La quantità di cose che abbiamo trovato su circa quattro chilometri di strada che costeggia la riva è, credo, paragonabile a quella che si troverebbe in uno dei parchi più puliti di Roma. Eppure la partecipazione non è affatto mancata.

Per i giorni successivi, il programma passava da un piccolo cottage situato nel porto, padrone di casa un certo ex giornalista di un buon metro e novanta. Quel cottage di legno, per piccolo che fosse, oltre a ripararci dal vento tagliente che viene dal mare, è il centro della lotta contro la caccia alle balene. Lì, abbiamo imparato quanto questa attività sia diffusa nel Nord Europa, tra Islanda e Norvegia, chi ne beneficia, quanto sia economicamente folle da intraprendere e portare avanti, quanti fallimenti siano avvenuti alle imprese che ci hanno provato, ma anche quanti ancora ne fanno un business, in particolare per cibare i turisti che a centinaia di migliaia si riversano in Islanda durante l’anno. È stata una lezione di politica, di lobbying, di economia e di umanità non da poco, a torto o a ragione ovviamente, a sentire i diversi punti di vista delle persone del luogo. Dopodiché, siamo tornati al freddo, con in mano una quantità di adesivi “Meet us, don’t eat us” o “Are you whale-friendly?” da distribuire a turisti e abitanti, in modo da parlare con loro e spiegare quanto la caccia alle balene sia insensata anche per il cambiamento climatico e consigliando di non andare in quei ristoranti che servono carne di balena, “Moby Dick on a Steak!” come dice uno slogan di un certo locale del porto. Stare dall’altro lato dell’incontro sul marciapiede, dalla parte di chi cerca di fermare il passante e discutere con lui di una certa tematica, è stato davvero interessante, una posizione che pensavo non avrei mai tenuto in vita mia. Fare quell’esperienza, però, ci avrebbe fatto anche guadagnare un viaggio gratis per andare in barca a vedere le balene, in un freddo mai visto e malgrado la sfortuna di vedere niente nel giro di tre ore al largo, con la vista irripetibile però delle montagne e della città vista dal mare. Su quella stessa barca siamo poi tornati per una conferenza sulla caccia alle balene e sulla legislazione, comparate al caso della caccia ai lupi in Polonia.

Il giorno stesso che le condizioni meteo iniziassero a precipitare, eravamo nel giardino botanico della città, un grande giardino all’aperto che conserva specie botaniche proveniente da tutto il mondo, quasi un custode della diversità i cui addetti devono lavorare come matti per mantenere specie diverse in un clima a volte così proibitivo. Il programma poi passava dal celebre Golden Circle, il giro turistico che va per la maggiore perché passa da tutte le attrattive naturalistiche della regione intorno alla Capitale. Prima tappa, la centrale idroelettrica. Ci si aspetta, da una centrale che provvede all’elettricità di tutta Reykjavik, comprese zone limitrofe, un grande impianto industriale con centinaia di lavoratori. Ad accogliere, invece, è una sorta di museo sull’energia, quasi completamente automatizzato, di piccole dimensioni. È di per certo una delle grandi rivoluzioni islandesi, un Paese che dopo la crisi petrolifera degli anni Settanta, ha semplicemente deciso di tagliare le importazioni di petrolio e riscoprire ciò di cui abbondavano: sorgenti geotermiche. Grazie a queste, l’anidride carbonica presente nell’aria è scesa a dirotto e, tra l’altro, il prezzo dell’energia è irrisorio. Talmente irrisorio da creare la situazione opposta di spreco, più che di consumo ridotto.

L’Islanda, era chiaro a quel punto, aveva da insegnare molto. Un esempio, seppure sui generis, di un certo modo di cambiare le politiche e gestire energia e ambiente. Un popolo così aperto al turismo e così pronto a darti una mano. C’è consapevolezza da scoprire in un campo del genere; e tra lo scoprire una nuova cultura, confrontarsi con tutte le altre che ti parlano una volta tornati in quella che diventa la tua casa per dieci giorni, e il fatto stesso di viaggiare e ritrovarsi da solo con i propri dubbi e quelle poche certezze che ti accompagnano, non c’è alcun motivo per non farsi coraggio e andare a visitare un luogo così remoto e moderno insieme, tra nuove persone da conoscere e sperare di incontrare di nuovo presto. È viaggiare, è una delle cose più belle che possiamo avere in un mondo che ha così tante contraddizioni. Andate in Islanda, partite per un campo del genere, ma fatelo d’inverno se potete, con un buon paio di pantaloni impermeabili, una buona quantità di maglioni, cibo che sapete cucinare dal punto da cui provenite, e con le vostre paure. È inutile lasciarle a casa, è necessario portarsele dietro per capirle meglio e capire almeno un po’ di più chi siete voi.