America Latina oggi: comunità indigene e nuove sfide

Articolo di Maria Paola Montisci, human right defender in Guatemala, America Latina.

Tirando le somme di un 2016 che si è ormai chiuso, possiamo mettere in conto alcuni fatti che lasceranno l’impronta in America: una pace firmata e rifiutata in Colombia dopo 50 anni di guerra civile, l’elezione di Donald Trump, la celebrazione dei 20 anni della firma della pace in Guatemala e l’annuncio di una candidatura alle elezioni messicane di una donna indigena da parte dell’EZLN.

Non è esattamente facile spiegare come questi fatti possano essere legati l’uno con l’altro o come possano avere l’uno influenza sull’altro, ma ci proveremo. In Centro America, il cuore del mesoamerica, e, nello specifico in Guatemala, dopo 20 anni dalla firma della pace che mise fine a una guerra civile durata 36 anni, la popolazione indigena di cui 22 etnie maya, una xinca e una garifuna rappresenta la maggior parte degli abitanti di questo paese, una maggioranza oscurata da troppi poteri: l’oligarchia costituita da un G8 di vecchie famiglie che detengono il possesso della terra e le grandi produzioni d’esportazione del paese quali caffè e zucchero, i grandi monocoltivi, i nuovi poteri economici come le compagnie telefoniche e ormai le troppe transnazionali tra cui l’italiana ENEL, che estraggono e traggono beneficio da un territorio in cui vivono altre persone, quelle indigene, che ancora non hanno il potere di decidere delle proprie terre, dove lo strumento della consulta comunitaria garantita dalla convenzione OIT 169 è solo un pezzo di carta e le resistenze contro lo sfruttamento della madre terra vengono criminalizzate, incarcerate, minacciate e troppe volte uccise.

Quest’anno in Honduras, come molte altre volte è avvenuto in Centro America, è stata assassinata Bertha Caceres, che si batteva per il diritto del popolo lenca a non cedere la propria terra e il proprio fiume per la costruzione di una grande diga che avrebbe generato grandi watt di energia e che avrebbe alimentato l’estrazione mineraria e le “maquilas” (1) di altre periferie. E in Centro America, mentre gli Stati Uniti andranno avanti con il piano della prosperità, un seguito del piano puebla panama che punta a dare sicurezza e lavoro laddove la maggior parte della popolazione cerca di andar al nord sfidando la sorte e la vita, cerca di risolvere i problemi “aiutandoli a casa loro” come qualche noto politico italiano direbbe.

In Colombia, altro paese in mano alla oligarchia e al narco-traffico, ci si trova davanti al passo che si compì 20 anni fa in Guatemala e nonostante la firma della pace, con un referendum tanta gente dice NO alla pace. Un paese militarizzato e in mano ad altri poteri che non ha trovato una buona ragione per aprirsi a un periodo di stabilità, a un periodo che avrebbe dovuto avere come seguito la persecuzione dei crimini di guerra, la smobilitazione delle FARC e delle forze guerrigliere, compito non da poco, rendere un controllo territoriale alla popolazione, diminuire la corruzione tra politica, economia e narcotraffico diretto verso gli USA. La Colombia potrebbe dare un’occhiata al Guatemala e avere la delusione di vedere il paese saccheggiato dei suoi beni comuni e delitti come genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità, che con grande difficoltà avanzano nei tribunali perché il potere militare ha permeato ogni strato dell’economia, e la produzione, il narco-traffico, la tratta di persone e la politica sono ancora in mano loro da troppo tempo, sotto gli occhi degli Stati Uniti che traggono vantaggio da uno status quo necessario.

Davanti a una situazione di violazione perpetua dei diritti umani in America Latina da parte degli stati, è proprio del basso che nasce la proposta, in Messico, di candidare un’indigena alla guida di una paese che attualmente conta 27.000 sparizioni l’anno(2), militarizzato e ancora una volta in mano ai narcos e a forze paramilitari: la proposta è stata chiaramente provocativa, in Chiapas il CNI (3) e l’EZLN (4) hanno deciso di vivere in un altro territorio con un altro governo e un’altra forza di andare avanti, ma il segnale è stato importante per ricordare che gli invisibili, i popoli indigeni, esistono e ancora resistono, hanno piena capacità decisionale e sono intenzionati ad andare avanti nella lunga notte dei 500 anni.

Due cose, ormai viralizzate nelle reti sociali, danno una grande preoccupazione: la morte di Fidel Castro e l’elezione di Donald Trump.

Il nuovo capo degli Stati Uniti conferisce e legittima il potere delle oligarchie latine che aumentano le minacce contro i difensori della vita, della terra e del territorio, certi di avere l’appoggio del neoliberalismo razzista e classista più sfrenato, e dall’altra ci si ritrova con il timore che Fidel Castro si sia portato nella tomba ben più di un sogno rivoluzionario: la capacità di aver dimostrato, anche se con tante contraddizioni, che il capitalismo si può sfidare. Potrebbero arrivare tempi duri per tutti coloro che camminano alla ricerca della luce, e allo stesso tempo siamo davanti a tante persone che nonostante le persecuzioni, le sparizioni forzate, gli assassinati, le torture, i numerosi femminicidi, ci insegnano che resistere non solo è legittimo ma è un dovere di tutti e tutte.

(1) Vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Maquiladora

2) http://rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/2016/Messico.pdf

(3) Congresso Nazionale Indigeno

(4) Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale